HIV: le donne sono più “fragili” di fronte all’attacco del virus
Grazie a nuove terapie e a una nuova consapevolezza, l’Hiv non fa più paura come una volta. Questo tuttavia non vuol dire che si possa abbassare la guardia, soprattutto se si parla di soggetti fragili. Ma cosa succede se a poter essere definita “soggetto fragile” è la metà della popolazione infetta, ovvero le donne?
La domanda è stata sollevata nel corso del 12o congresso ICAR (Italian Conference on AIDS and Antiviral Research), che si è svolto online dal 12 al 16 ottobre. La donna presenta infatti degli elementi specifici sotto il profilo clinico, con riferimento sia all’acquisizione dell’infezione, sia alla progressione della malattia, tuttavia non vengono rappresentate in modo adeguato nei trial clinici, le ricerche che vengono condotte per cercare di debellare definitivamente il virus. “Un elemento caratterizzante della donna è il rischio di acquisizione – evidenzia la Dottoressa Giulia Marchetti, professore associato di Malattie Infettive Università di Milano, presso l’Ospedale San Paolo – l’apparato genitale femminile presenta alcune caratteristiche specifiche che possono comportare alterazioni in grado di favorire la possibilità di contrarre l’infezione. La letteratura scientifica conferma questa tesi sulla base di due elementi: anzitutto, l’infiammazione a livello genitale femminile determina anche un aumento delle cellule che possono essere infettate da Hiv; in secondo luogo, è dimostrato che vi sia un’aumentata espressione di alcuni corecettori dell’Hiv sulle cellule della mucosa genitale come evidenziato da studi su biopsie della cervice uterina”.
“Un altro aspetto su cui si è concentrata l’attenzione negli ultimi anni è il microbioma vaginale – aggiunge l’esperta – quell’insieme di batteri normalmente presenti nel nostro organismo a ogni livello, che influenzano tante situazioni di benessere e malattia. Il tipo di microbioma presente a livello vaginale ha effetti sulla probabilità di venire infettati. Questo è stato dimostrato in coorti di pazienti molto ampie. In breve, possiamo affermare che le donne abbiano degli elementi di maggiore vulnerabilità, che sono in buona sostanza legati proprio alle caratteristiche biologiche del distretto genitale femminile, sia in termini di infiammazione, cioè di aumento di cellule infiammatorie che possono essere infettate, sia in termini di microbioma che in alcune tipologie sembra favorire la trasmissione dell’infezione. Questa condizione provoca conseguenze in tema di prevenzione: non per quanto riguarda la PrEP (profilassi pre-esposizione, che consiste nel prendere farmaci anti-HIV da parte di persone HIV-negative, che hanno un rischio di contrarre l’HIV) per via orale, ma per i vaginal rings, intrisi di farmaci antiretrovirali, che potrebbero essere meno efficaci perché potrebbero essere influenzati dalle caratteristiche specifiche sia dal microbioma. In questo senso, alcuni germi propri di quadri di disbiosi vaginale hanno mostrato la capacità di metabolizzare i farmaci antivirali rilasciati dagli anelli vaginali, riducendone così la biodisponibilità”.
LE DONNE E L’EVOLUZIONE DELL’AIDS – Il secondo aspetto riguardante le donne è attinente alla loro diversa evoluzione della malattia. “Nelle prime fase dell’infezione, le donne sembrerebbero avere delle cariche virali di HIV più basse rispetto agli uomini: un dato sostanzialmente positivo, almeno in apparenza – spiega la professoressa Marchetti – Tuttavia, in merito alla progressione, cioè alla probabilità di sviluppare Aids, nessuno studio ha dimostrato con certezza delle differenze tra uomini e donne. Quindi, nonostante una carica virale più bassa in una prima fase, ciò non implica un minore sviluppo della malattia come si potrebbe supporre. I ricercatori hanno approfondito questo aspetto immunologico: ciò che è emerso è che nelle donne, pur con una carica virale più bassa all’inizio dell’infezione, viene a crearsi una situazione di maggiore attivazione del sistema immunitario durante la fase cronica dell’infezione. In particolare, si osserva un aumento dei livelli di sottotipi cellulari che producono interferone, citochina in grado di esplicare un duplice effetto sull’infezione da HIV: un iniziale maggiore controllo della replicazione virale, seguito però da un contributo alla progressione del danno immunologico. Questo è il dato più forte: nelle fasi iniziali dell’infezione, prima del trattamento antivirale, le donne hanno meno carica virale, che si accompagna però ad una maggiore produzione di interferone e di attivazione immunitaria, la quale tuttavia nelle fasi croniche dell’infezione può portare ad una progressione di malattia più rapida. Analogamente, un assetto infiammatorio più elevato nelle donne si associa ad una maggiore probabilità di sviluppare tutte quelle malattie associate alle persone affette da Hiv, quali quelle di tipo cardiovascolare, aterosclerosi precoce, infarti, malattie dell’osso come l’osteoporosi o l’osteopenia, oltre a menopausa precoce, minore funzionalità ovarica, conseguenze all’apparato riproduttivo”.
ATTENZIONE ALLA COMPLESSITÀ– Nel decorso della malattia pesano anche altri fattori, che creano una situazione di complessità difficile da gestire, soprattutto nei pazienti fragili. “La popolazione che ha contratto l’infezione da HIV sta invecchiando ed è molto importante considerare le diverse comorbosità al momento della valutazione della terapia antiretrovirale, non soltanto per le interazioni farmacologiche, ma anche per evitare di sommare effetti collaterali simili – sottolinea Cristina Mussini, professore ordinario di Malattie Infettive presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e co-presidente del Congresso – L’attiva partecipazione al convegno della community ha aiutato a far emergere problematiche sociali ed etiche scarsamente considerate in altri ambiti, come quelle legate alla popolazione transgender, che presenta peculiarità e fragilità che meritano di essere affrontate in modo adeguato. Altri soggetti con corsi dell’infezione più complessi sono i pazienti con presentazione tardiva, oltre ad adolescenti e giovani adulti che hanno acquisito l’infezione per via materna. Inoltre, ogni aspetto sia sanitario sia sociale legato allo stigma risulta amplificato nella popolazione immigrata, i cui soggetti spesso sono legati a una presentazione tardiva, a una minore aderenza e al rischio di perdita al follow-up. Infine, questi tempi difficili per tutti lo sono ancora di più per una popolazione che per motivi sanitari e sociali è più fragile di altre. Infatti, l’infezione da Covid-19 ha avuto un importante impatto negativo su tutta la cascata della cura dell’infezione da HIV: l’impatto negativo si ha a partire dalla prevenzione, quindi dal test e dalla PrEP, per la quale, nonostante i recenti progressi, in Italia persiste ancora una non rimborsabilità, contrariamente agli altri Paesi europei”.
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