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Protagoniste: Yvonne Sciò

Yvonne Sciò | photo: Shoko Takayasu
Yvonne Sciò | photo: Shoko Takayasu

Dopo il successo del suo primo documentario da regista, Roxanne, Yvonne Sciò lo scorso marzo ha debuttato con la sua seconda opera Seven WOMEN, film documentario su sette donne di fama internazionale che l’hanno ispirata e guidata nel suo percorso artistico e professionale: Rosita Missoni, Rula Jebreal, Fran Drescher, Alba Clemente, Patricia Field, Susanne Bartsch e Bethann Hardison.

Mentre su RaiPlay è possibile vedere il film e scoprire l’attrice nella sua nuova veste di regista, raggiungiamo telefonicamente Yvonne Sciò che nella sua casa di Roma è già a lavoro su un terzo documentario. Con lei scopriamo la maturazione artistica e la scelta di passare dietro la macchina da presa, raccontando storie di donne, amiche, modelli di libertà e indipendenza.

trailer di Seven WOMEN, da vedere e rivedere su RaiPlay

Nelle note di regia di Seven WOMEN dici: Volevo continuare il mio viaggio nel mondo delle donne e volevo continuare a raccontarle a bassa voce come piace a me. Iniziamo da queste parole?

Si, credo non ci sia bisogno di alzare la voce per dire delle cose importanti, soprattutto quelle che lo sono per te, la tua anima e il tuo cuore. Trovo sia molto volgare e poco elegante aggredire per dire la tua. Realizzare Seven WOMEN è stato molto difficile, non sai i pianti che mi sono fatta. Mia figlia mi diceva di non preoccuparmi. Anche Roxanne e questo terzo documentario a cui sto lavorando sono stati difficili da realizzare. Seven Women all’inizio non lo volevano perché racconto delle donne particolari, io faccio cose più di nicchia senza una grande produzione dietro. Oggigiorno però, grazie alla tecnologia, non è che la tua storia sia meno importante di una dal budget e la struttura enorme. Questa del raccontare le cose a bassa voce era qualcosa di mio. Io sono una che ascolta tutti però per questo film sono andata per la mia strada e adesso piano piano un sacco di cose le ho imparate e continuo ad imparare. Avevo tantissima voglia di raccontare queste storie.

Sette donne ed anche sette amiche?

Amiche diverse e chi più chi meno ma sì. Con Fran ho un rapporto speciale, l’avevo conosciuta quando ho fatto la Tata, la serie iconica, ho anche recentemente trovato una mia foto pazzesca con una dei personaggi, Renee Taylor che interpretava Zia Assunta.  Con Fran Drescher ho stabilito un bel rapporto di amicizia e sapevo della sua vita perché tutto il mondo conosce lei ma non sa del suo passato, le cose che ha vissuto. È una donna di una forza incredibile e avendo un buon rapporto con lei, nel film lei mi racconta la sua storia mentre cucina il lardo. Amo contrasti come questo perché secondo me è molto interessante raccontare le storie con un grande senso di verità. Con Rula invece siamo molto amiche da tanto tempo ma abbiamo un rapporto completamente diverso da quello che ho con Fran. Mi piaceva il gioco di contrasti, di culture e di educazione  che si creava con le storie di queste sette donne, raccontare i tessuti e le culture diverse.

Rula Jebreal | photo: Boo-George

Tornando indietro, come nasce invece Roxanne?

Roxanne Lowit in realtà ha fatto sempre parte della mia vita. La prima volta che l’ho conosciuta era perchè mi aveva fotografato fuori Roma per Vogue Germania. Io avrò avuto tipo 16-17 anni e da lì siamo diventate amiche.  Io le dissi che volevo andare in America, a Los Angeles a fare l’attrice e siamo sempre rimaste amiche e io ho vissuto dei momenti lungo la mia vita con lei che mi hanno insegnato tantissimo. Siamo andate insieme a Venezia perché lei andava a fare le foto per Vanity Fair. Ci siamo organizzate e abbiamo vissuto dei momenti indimenticabili. La guardavo fotografare ed è stato un po’ come fare l’università dell’immagine, dell’inquadratura. Poi io facevo il cinema, ho lavorato con dei grandi e meno grandi però imparavo e mi piaceva molto. Ad un certo punto, mentre stavo a Los Angeles, avevo scritto una storia per la televisione in cui uno dei personaggi era lei e avevo provato a farla produrre ma non ci sono riuscita. Quando mi sono sposata e ho fatto l’esclusiva con Chi per il servizio del matrimonio, la mia fotografa è stata lei. Il direttore di Chi dell’epoca mi disse: “ma è la Roxanne di Vogue Italia e Vogue America? sei sicura che lo fa?”. Quando è nata mia figlia la prima persona che l’ha fotografata è stata lei, ha sempre fatto parte della mia vita, ho vissuto anni a New York con uno chef molto famoso e lei veniva da noi al ristorante. Quando è così non ti rendi conto che passano gli anni, lei è un personaggio fuori dal tempo. Infatti mi hanno fatto i complimenti per il documentario, anche mio padre, per essere riuscita a farla parlare nel film perché non dice mai una parola. Vive nel mondo delle fotografie, dell’immagine, della notte per cui quando si è ammalata ho fatto questo sogno, mi sono svegliata una mattina, ho aspettato l’orario di New York e le ho detto che volevo girare un documentario su di lei. Lei ha risposto: “figo” ma non l’ha subito presa seriamente, ha pensato fosse una cosa tra amiche.

Quando poi ha visto il documentario a Venezia dopo mille peripezie che ho passato per farmi dare le foto e farmi prendere seriamente,  ha pianto tutto il tempo e mi ha detto che non si era resa conto. Si pensa sia facile ma a me non è venuto mai niente facile nella vita.

Yvonne Sciò | photo: Federica Molfese

La decisione di diventare regista è stata quindi legata a Roxanne Lowit?

È arrivata perché avendo io imparato e conosciuto talmente tante cose grazie a lei e avendo vissuto talmente tanti momenti della mia vita con lei, nel momento in cui le è venuto il Parkinson (che poi per una fotografa è devastante), ho capito di volerle fare un regalo. Quando poi il documentario in collaborazione con Vanity e Istituto Luce ha avuto successo a Venezia, ho pensato che forse ero capace perché tutti mi hanno detto che ero stata bravissima. Mi hanno chiesto come avevo fatto ed ho risposto: “con il mio cuore, i miei occhi e il mio computer”. È sempre molto complicato come adesso che sto lavorando al terzo, soprattutto con la situazione coronavirus però tratterà sempre storie di donne anche se sarà molto diverso dai precedenti.

In più la mia idea di Seven Women è stata abbastanza scopiazzata, potrei fare una lista di prodotti simili. Dopo l’iniziale arrabbiatura però, ho pensato che forse qualcosa di buono l’avevo fatta se l’avevano copiata.

Con il tuo lavoro di regista sembra che tu ti stia impegnando per raccontare le donne, quelle che hanno fatto la differenza. Credi sia un modo per spronare tutte noi a fare sempre di più, a cercare di cambiare le cose?

In  questa mia nuova fase di maturazione artistica, da quando sono tornata in Italia e ho cresciuto una figliada sola, ho fatto tutte queste cose perché volevo sempre far vedere a mia figlia che, nella vita, con il lavoro, il sacrificio o la creatività puoi fare qualsiasi cosa. In Italia si sente spesso ancora il peso di dover stare con qualcuno. Nel mio documentario per esempio, io sono affascinata da Fran Drescher: lei faceva la parrucchiera nel Queens, si è sposata e con il marito ha scritto tutta una serie di cose di successo tra cui la Tata.

Vedere queste donne che sono riuscite nella vita, lottando, infonde energia

Sì, donne che non sono nate con il cucchiaio d’oro in mano, che non sono mai state raccomandate. La vita non è mai come ce la immaginiamo, io da ragazzina sognavo cose diverse e  poi ti rendi conto che la vita non è mai come pensi che sarà e come te la immagini ma è meravigliosa per quello, perché tu puoi cambiarla e ricrearla sempre.

A che punto siamo con la parità di trattamento secondo te?

A 15 anni, quando facevo la pubblicità, mi dicevano “ma no tu fai solo la pubblicità, non puoi fare cinema”. Poi ho fatto i primi film e volevo fare il teatro e mi dicevano “ma no, tu fai i film, non puoi fare il teatro”.  Siamo sempre incasellate, messe dentro delle categorie. Anche adesso che faccio la regista, addirittura mi dicono che mi devo vendere solo come regista ora ma io rispondo: “faccio dei documentari, non sono mica Kubrick, magari”. Per gli uomini questo problema non c’è o comunque è diverso. Io racconto sempre che quando ho cominciato a girare Roxanne, scrivevo le e-mail ai network e all’inizio non mi rispondeva nessuno. Poi dopo un po’ hanno cominciato a filarmi ma sono molto dell’idea che chi fa per sé fa per 33. Devi avere dei sogni, degli obiettivi e vai avanti, poi se deve succedere, succede.

Senti che le cose si stanno modificando o no?

In Italia è difficile, tra noi donne la solidarietà è rara mente all’estero invece c’è una grande alleanza. In America sono molto supportata da donne che mi vogliono bene e che sentono che posso essergli utile.

Yvonne Sciò | photo: Gianmarco Chieregato/Photomovie

E tra mamme?

Ecco brava, queste fanno eccezione.  Io sono legatissima a tutte le mamme delle amiche di mia figlia, per me si farebbero in 18, come io per loro. Se io dico che ho una cosa da fare, mi dicono non ti preoccupare, te la teniamo noi tua figlia. Ci si dà sempre una mano ecco, su quello posso mettere le mani, i piedi, tutto sul fuoco, per me ci sono sempre.

Senti la responsabilità dell’essere mamma  e soprattutto madre di una futura donna?

Oh sì, non ci dormo la notte, sento una responsabilità enorme da quando avuto mia figlia e ho capito che ero da sola. Ho scelto di mettere la mia vita artistica nel cassetto per un po’ e io ho fatto la vita di mia figlia e lei ha fatto la mia, un po’ hippy. Mi sento molto responsabile del crescere un essere umano che debba essere completamente indipendente, che capisca che non c’è bisogno di sposarsi o contare su altri, devi fare nel tuo piccolo sempre del tuo meglio con onestà e dignità. Però poi alla fine comunque sei libera e il senso di libertà comunque lo paghi. Noi non ci rendiamo conto che siamo fortunate come donne in Italia rispetto ad altri paesi in cui ci sono donne che per aver osato guidare vengono prese a frustate e rinchiuse in carcere. Io poi collaboro con Amnesty e quindi sono ossessionata da queste cose. Ci sono delle culture che verso le donne hanno zero rispetto, bisogna sempre anche pensare a quanto siamo fortunate ad essere libere di scegliere con chi stare e chi essere.