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Pink Society

lo sguardo rosa sulla società

Protagoniste: Francesca Mannocchi

FRANCESCA MANNOCCHI Bianco è il colore del danno

Questa è la storia di Francesca Mannocchi, ma è anche la mia storia.

Con parole accurate, potenti, lucide, Francesa Mannocchi racconta di una malattia che la medicina ancora non conosce bene e non ha sconfitto, parla della “sua” sclerosi multipla, facendola diventare anche un po’ “mia”.

“È stata grande la fatica emotiva di scrivere questo libro”, lo dice con un po’ di timidezza, Francesca Mannocchi. E spiega che sono tante le storie delle persone che mi contattano dopo aver letto il mio libro. “Mi stanno travolgendo, abbracciando, inseguendo. E io sto rispondendo a tutti. Voglio rispondere a tutti.

Madri e figlie, padri e figli che non hanno mai pensato di scrivere di paure e malattia, ora mi scrivono dicendo cose tra le più intime e faticose da dire”

Ti avrei dovuto recensire, ma anche io ti scrivo. Perché la tua storia mi ha travolta. Ti scrivo come fanno le centinaia di persone che ti hanno raggiunto per parlarti di sé. 

Anche io mi sono ammalata di sclerosi multipla a trent’anni, mamma da poco. Una mattina, all’improvviso, metà del mio corpo non mi obbediva più. Alla mia gamba destra dicevo muoviti e lei restava immobile, alla mia bocca dicevo chiuditi e lei, recalcitrante, faceva sbavare il caffè dalle mie labbra; alla mia mano dicevo stringi, ma i biberon sfuggivano al mio controllo, schiantandosi in mille pezzi, cattivi, rumorosi, taglienti e bianchi di latte.  Per me il bianco è anche il colore del latte che scivola a terra e che non sei più capace di ripulire dal pavimento.

Cara Francesca, sino a pochi giorni fa non ricordavo nulla della mia prima risonanza. L’ho ricordata leggendo le tue parole. E mi rivedo in un angolo della sala d’aspetto dell’ospedale di Alessandria, in un caldo pomeriggio del luglio del 2003. Sono da sola, seduta su una sedia a rotelle e aspetto di essere infilata dentro un tubo di metallo.

Ricordo le stesse raccomandazioni fatte a te. Sento il rumore dei segnali del magnete mentre registra il respiro della mia malattia, come se fosse un dialogo tra il mio corpo e i magneti che scrutano il mio cervello. E io dove ero in quei momenti lì? Io stavo pensando a una filastrocca, quella dei tre porcellini, cercando di recitarla nella mia mente al ritmo di questa macchina infernale.

Ho (ris)coperto la mia SM leggendo della tua. “…Nero è assenza di segnale. Bianco è segnale massimo.

Le mie lesioni sono bianche e la mappa in scala di grigi è la vita della malattia, il suo stare, il suo evolversi, dentro di me, potenzialmente degenerativo”: l’evoluzione della tua malattia è diventata anche la mia.

Le tue parole sono diventate le mie. Giornalista tu, giornalista io.

Neppure io ho paura delle parole. Leggere della tua SM nel tuo libro è diventato un esercizio per sfidare la mia malattia.

Ho scoperto, grazie a te, che certe parole andrebbero spiegate meglio. Le parole che iniziano con la “I”, per esempio, parole come “immobilità”, “imprevedibilità”, “incurabilità”, “intorpidimento”, “ingravescente”, “invisibile”, per noi pazienti sono una filastrocca senza senso o un rosario di misteri infiniti che recitiamo spesso. Ma anche “cronicità”, “fatica”, “dolore cronico”, “spasticità…”, sono tutte parole che noi persone con SM non sappiamo spiegare agli altri e neppure a noi, perché spesso si traducono più semplicemente in un “come era prima non esiste più”. Le parole, per noi, hanno un valore e un significato diverso.

Le parole con cui i medici vogliono spiegarti la malattia spesso diventano un elenco enorme di paure.

Alcune paure restano lì, appese alla tua memoria; altre ti raggiungono e vincono, diventando un simbolo della tua sconfitta.

La nostra vita è fatta di parole; la mia, come giornalista, ha il suo senso nel saper raccontare storie e incontri, attraverso voci e parole nuove. Di mondi e parole ne sono da sempre una formidabile scopritrice. Anche tu lo sei. Le tue parole, Francesca, hanno stanato una malattia diversa da quella che conoscevo, hai usato le parole più giuste per raccontarla: hai usato parole spietate e taglienti, ma adatte a parlare di una malattia spietata e traditrice, che fa male.

Parlare di SM con un nuovo lessico sarà anche il mio impegno, perché avere la SM vuol dire che non sarai più come prima. Che per noi con una malattia cronica il tempo cambia di significato, perché ha un unico tempo verbale che è quello del presente.

Essere malata ti costringe ad abitare una paura e un “vergogna” che è privata e collettiva insieme: «La vergogna è questa cosa qui. Ci rivela cosa siamo per gli altri, quanto valiamo nel catalogo dei vivi, ora che siamo guasti».

Il bianco è anche il colore di questa vergogna, del disinganno, della scoperta delle fragilità. E’ anche il colore della paura, che non va negata, perché è il grido del coraggio. Grazie.