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Caritas per le donne, dopo la pandemia rinasce la solidarietà

Le donne riescono a mettersi al servizio di altre donne

La pandemia pesa soprattutto sulle spalle delle donne, a dirlo è l’ultimo Report della Caritas che ha fotografato grandi cambiamenti nella condizione socioeconomica femminile.

Sono sempre di più le donne che si rivolgono ai centri d’ascolto e ai servizi Caritas, tanto da costituire ormai la maggioranza degli accessi. Si impone una riflessione sulle nuove necessità delle famiglie e sul ruolo che l’assistenza, rinnovandosi, andrà a ricoprire nel prossimo futuro.
Abbiamo chiesto a Monica Tola, responsabile del coordinamento aiuti materiali ed alimentari in Caritas italiana, di guidarci all’interno di questo nuovo scenario in cui le donne, purtroppo, rischiano di essere relegate ai margini. “I dati del Report hanno dato inizio a molte riflessioni sulla condizione femminile – ha spiegato la dottoressa Tola – e pensare che è tutto partito da una foto su WhatsApp…”

In che modo?

Nel Report 2020 è contenuta un’infografica estremamente efficace nel mostrare il nuovo profilo delle persone che si rivolgono ai centri di ascolto delle Caritas diocesane. Per quanto riguarda le donne il dato era il seguente: nel 2019/2020 la percentuale di donne che si sono rivolte ai nostri servizi è passata dal 50,5% al 54,4%. Sono soprattutto italiane, con un’età che va dai 18 ai 34 anni e molto spesso con figli minori. Io ne sono rimasta molto colpita, tanto da aggiornare il mio stato di WhatsApp (cosa che non faccio mai!) utilizzando come foto proprio quell’infografica. Ebbene, quel giorno ho ricevuto valanghe di messaggi da amiche, conoscenti e colleghe.

Cosa dicevano quei messaggi?

“Praticamente io”. In moltissime si sono riconosciute in quell’infografica, al di là del disagio economico. Vede, questa crisi impone alle donne un prezzo altissimo da pagare a causa delle diseguaglianze di genere che esistono nel nostro Paese: siamo ancora a livelli medio-bassi nella classifica mondiale di equità, c’è meno lavoro per le donne e quando c’è è spesso precario o part time. Inoltre, le donne che perdono il lavoro fanno molta più fatica dei loro colleghi uomini a rientrare nel mercato. Con la pandemia questi squilibri preesistenti sono esplosi.

Quindi le donne che si rivolgono a voi chiedono lavoro?

No, questo è il punto nodale: sembra che nei nostri centri di ascolto le donne chiedano soprattutto aiuto per le questioni di tipo familiare, quindi aiuti miteriali come cibo e prodotti per l’igiene o materiale scolastico, oppure contributi per le utenze e per il mantenimento del bene casa. Sono gli uomini quelli che più spesso si rivolgono a noi chiedendo lavoro.

Caritas per le donne, dopo la pandemia rinasce la solidarietà

Perché avviene questo?

Insieme ad alcune colleghe ci siamo chieste anche noi il perché di questo mettere da parte i propri bisogni per farsi sempre portavoce di esigenze altrui. Ci siamo però rese conto che prima di tutto occorre capire quali siano i bisogni di queste donne e cosa ci impedisce di coglierli. Abbiamo capito che è fondamentale andare alla radice e individuare le problematiche che affrontano prima di arrivare in un centro d’ascolto. Inoltre abbiamo ragionato su quanto costa loro in termini emotivi decidere di rivolgersi alla Caritas. Nell’immaginario comune la Caritas, purtroppo, è “l’ultima spiaggia”, il luogo dove arrivi quando non hai più speranze. Da questo confronto abbiamo capito che è tempo di innovare l’approccio complessivo dei servizi Caritas nei confronti delle donne ma partendo dai diritti, come il diritto alla partecipazione, il diritto al benessere complessivo (fisico ma anche emotivo), il diritto alla protezione nei confronti delle violenze di genere che, come abbiamo visto, durante il primo lockdown sono aumentate e il diritto di riconoscersi come persone a prescindere dai bisogni degli altri.

Cosa pensa che cambierà all’interno dei servizi Caritas rivolti alle donne in questa nuova prospettiva?

Stiamo impostando una “chiamata di idee” che realizzeremo tra maggio e giugno per aiutare le Caritas a superare una modalità di servizio che prevede una risposta a una richiesta. Cercheremo invece di costruire per le donne dei contesti informali e accoglienti in cui far nascere un confronto e una riflessione sui diritti che abbiamo appena elencato, anche con l’aiuto delle operatrici. Speriamo in questo modo di superare le resistenze che le donne hanno a rivolgersi a noi. Le colleghe che lavorano sulla grande marginalità mi raccontano come persino durante l’emergenza freddo i dormitori femminili siano gli ultimi a riempirsi. Le donne aspettano di arrivare veramente al limite per chiedere aiuto, sembrano essere frenate molto più degli uomini dal pudore, dal disagio e dallo stigma sociale. Questo purtroppo avviene anche rispetto alla violenza di genere. Dobbiamo fare in modo di creare luoghi e relazioni accoglienti, così che le donne si rivolgano a noi prima che la situazione diventi estrema. E poi bisogna anche cambiare il linguaggio che si usa per parlare di certi temi.

Certo, certe parole sono strettamente connesse con lo stigma sociale…

Esatto: è difficile rivolgersi alla Caritas se si usano termini come “poveri”, “indigenti”, “donne sole”, “vittime” e via dicendo… l’essere vista in questo modo è una cosa devastante. Tempo fa ne ho scritto in un articolo sul nostro periodico online, riportando una frase pronunciata da una donna che si era rivolta a noi e che mi ha molto colpito: “Purtroppo ne ho bisogno [dei beni di prima necessità], però che fatica non poter dire che potrebbero anche tenersi la pasta e la passata di pomodoro, perché a me manca il parrucchiere!”. Questo fa capire che le donne, anche quelle che si trovano in difficoltà, hanno lo stesso diritto al benessere di tutte le altre e lo stesso diritto alla consapevolezza di sé. Questo è il paradigma che dobbiamo cambiare, perché altrimenti il senso di inadeguatezza e rischia di essere veramente schiacciante. Dobbiamo cambiare tante cose, la pandemia lo ha fatto capire con chiarezza…

In che modo?

Il 50% delle persone che oggi si rivolgono ai nostri centri sono persone non abbiamo mai incontrato prima, rispetto alle quali non abbiamo strumenti. Si tratta di persone che dobbiamo quasi ingaggiare come partner di progettazione per capire di che cosa hanno bisogno! A livello macro ci sono tante dinamiche che vengono oggi inquadrate con maggiore chiarezza rispetto al passato. Per ritornare al tema delle donne, fortunatamente si parla molto più di prima delle disuguaglianze di genere. Ma è il livello micro che cambia le cose: le Caritas con la loro rete capillare possono non soltanto leggere la realtà, possono incidere su di essa e trasformare i numeri delle statistiche in volti.

Attualmente quali sono i servizi Caritas dedicati alle donne?

Sono servizi alla persona che includono case di accoglienza per donne sole, dormitori femminili, case di accoglienza per mamme con bambini. Caritas Ambrosiana ha attivato un sito che si chiama “Non è amore” per il contrasto alla violenza di genere e alla dipendenza affettiva. Si tratta di iniziative straordinarie, che però riguardano situazioni di emergenza. A questi vanno affiancati luoghi e servizi diversi, come sta avvenendo a Modena: a partire dal lockdown dentro il laboratorio Crocetta è stato creato uno spazio creativo di ricamo e cucito dedicato alle donne. Con la creatività e l’espressione di sé le donne assumono consapevolezza nuove, e confrontandosi tra loro riescono a tirare fuori e a “posare” terminate fatiche.

Quindi il relazionarsi con altre donne può diventare un momento terapeutico?

Certamente, e a noi interessa moltissimo sviluppare la capacità di mutuo aiuto. Le donne riescono a mettersi al servizio di altre donne, non a caso il progetto che stiamo immaginando si chiamerà “Do(n)na”, perché gioca appunto sulle parole dono e donna. Anche sul disagio psicologico esiste uno stigma da combattere: le associazioni di psicologi si sono battute nel corso della pandemia perché fosse data la possibilità di usufruire di voucher psicologici. Al di là della battuta di Draghi, bisogna riconoscere che il malessere è diffusissimo e il sostegno psicologico è fondamentale. Occorre comprendere l’importanza del lavoro emotivo e psicologico, che all’interno delle famiglie e della comunità è portato avanti soprattutto dalle donne. Per assurdo è una caratteristica che viene sminuita con luoghi comuni offensivi, come “la donna è incapace di gestire razionalmente le cose”. L’intelligenza emotiva femminile è una potenzialità da sviluppare, magari con un percorso che aiuti a mettere in fila le idee per sviluppare il proprio potenziale e non sentirsi sole o isolate. Ne potrebbe beneficiare l’intera famiglia di conseguenza l’intera comunità.