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Libri: Una specie di vento di Marco Archetti

Piazza della Loggia, 28 maggio 1974. Piove sulla manifestazione antifascista che riunisce partiti e sigle sindacali. Nascosta in un cestino portarifiuti sotto i portici di fronte al palco c’è una bomba. E un mare di gente intorno.

Alle 10.12 l’esplosione, Racconteranno i sopravvissuti che fu come una specie di vento. Otto i morti e 102 i feriti. Poi indagini, depistaggi, omissioni, mezze verità, 5 istruttorie e 13 dibattimenti prima di arrivare ad a 2 condanne definitive all’ergastolo, per Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, nel giugno del 2017. Quarantatre anni dopo. Marco Archetti, scrittore bresciano di talento, non era ancora nato il 28 maggio del 1974.

La strage non fa parte dei suoi ricordi. Ha studiato le carte processuali, ne ha scritto sul Corriere, ha sentito i testimoni. Il suo “Una specie di vento” non è però un documento storico, o perlomeno non solo: è un romanzo, dove Archetti dà voce alle vittime: che prendono corpo, rivivono, entrano in scena come a teatro e parlano, in prima persona, raccontano e si raccontano, la vita, le speranze, gli ideali, le preoccupazioni, le piccole cose di tutti i giorni. Vittorio Zambarda, Euplo Natali, Giulietta Banzi, Alberto Trebeschi, Clementina Calzari, Livia Bottardi, Bartolomeo Talenti,  Luigi Pinto.

Quella narrante di voce è di Redento Peroni, 84 anni. Il 28 maggio si trovava a pochi passi dalla bomba ma il destino ha voluto che il gesto di uno sconosciuto gli salvasse la vita. Un sopravvissuto Redento, che quel tempo complicato lo spiega ai nipoti. “Noi quella mattina del 1974 siamo andati in piazza perché avevamo paura, non perché eravamo degli eroi. Ma credevamo che avere paura tutti insieme fosse l’unico modo di dare un senso al coraggio. Credevamo che fosse un modo per non essere soli. Nessuno di noi – io no di certo – voleva ribaltare tutto così, da un giorno all’altro, furiosamente, senza senso. Sentivamo solo l’esigenza di far suonare un allarme. Non ve l’ho mai detto, ma una volta, durante il processo d’appello di Milano, ho cercato di avvicinare Maurizio Tramonte. L’ho fatto dopo mille ripensamenti, nella pausa concessa per bere il caffè. Mi sono accostato. Ehi, gli ho detto, ma non mi ha prestato la minima attenzione. Allora gli ho parlato in dialetto, lui aveva vissuto a lungo a Brescia, no? Mi ha guardato e ha borbottato: non capisco la tua lingua. Meglio così, forse io non avrei capito la sua. Certo, avrei voluto chiedergli perché. E come aveva dormito in tutti questi anni. Io, poco”. 

Io nel 1974 avevo 10 anni. Frequentavo la 4^ elementare. Quella mattina ci fu concitazione a scuola e poi le maestre ci mandarono a casa. Avevo capito che era successo qualcosa di molto grave ma non ero in grado di capire e di annodare i fili. Sapevo solo che le cose brutte succedevano al telegiornale. E che quel giorno noi eravamo entrati nel telegiornale. O il telegiornale era venuto a trovarci a casa nostra. La mia infanzia è finita lì, il 28 maggio 1974.

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