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Racconti Pink – LO ZIO PIPPO (Elisabetta)

Racconti Pink - LO ZIO PIPPO (Elisabetta)

Inspiegabilmente attraente. Non bello, nemmeno ben vestito, eppure aveva un modo di muoversi che la fece sussultare.

“Che ballerino!” e si avvicinò e gli chiese stupidamente “balli la salsa?”.

Beh, era un quarto d’ora che non suonavano altro e la pista si era riempita di attempati salseri, tra cui lui svettava per eleganza e senso del ritmo.

Con un sorriso la portò al centro della pista. Ballarono con tanta naturalezza che sembrava si conoscessero da una vita. I loro corpi si erano riconosciuti, avrebbe detto lei ad un’amica in un momento di totale idiozia amorosa.

Ma mentre ballava con Luca non pensava certo di avere appena conosciuto l’uomo che “mi ha fatto scoprire-la-mia-essenza-di-donna”.

Cioè, non sospettava di avere incontrato il più abile scopatore di donne della sua vita. Con tutti i guai connessi.

Lui scrisse il numero di cellulare su un cartoncino rimediato al bar (lo snobismo di lei ebbe per un attimo il sopravvento, nemmeno il biglietto da visita…).

Il telefonino lei non lo aveva ancora. Siamo negli anni ’90, quando la connessione h 24 non era ancora un obbligo morale.

Pochi giorni dopo lei lo chiamò, due chiacchiere, qualche risata, ceniamo insieme una di queste sere, ok per giovedì alle otto (lei era ancora abbastanza giovane da trovare questo iter inebriante, inconsapevole che ben presto le sarebbe venuto a noia; lui era abbastanza giovane e pirla da adattarsi alla solita trafila pur di rimediare una serata).

Giovedì alle otto al citofono sente una voce dirle “Catering” e dopo due rampe di scale – il giovane quarantenne era ancora in forma – eccolo materializzarsi con uno scatolone.

“Stasera cucino io!” e si impossessò della cucina.

Beh, le piaceva quel colpo di scena, che uomo pieno di iniziative, che sa sorprenderti. E come si muove bene tra le padelle.

“Io apparecchio, allora!” con un tono di voce di un’ottava troppo alta, tipo spot TV.

Luca aveva pensato anche al vino, dolce e spumante e la serata trascorse allegra, facile.

Erano proprio contenti di stare così bene insieme.

Lui ebbe anche l’intelligenza di andarsene senza provarci, con le sue carabattole, dopo aver perfino pulito la cucina: un gentiluomo d’altri tempi.

Lei, già trasognata, iniziò ad abbassare le difese.

Anche quelle immunitarie: nel giro di poche ore le venne un febbrone da cavallo e la voce da baritono, era completamente rintronata.

Quando lui la chiamò e la sentì conciata così, non si sottrasse – no – e romanticamente si presentò da lei con un sacchetto di vivande, medicine e sciroppi.

Lei si vergognava di farsi vedere così pallida e col pigiamone. Ma lui le disse che la trovava bellissima.

“Ciao, ciao, ci sentiamo quando guarisco, grazie, grazie!” e riuscì a chiudere la porta senza fargli capire (pensava lei) quanto il suo gesto l’avesse confusa.

“Il principe azzurro non è, quello è già passato e se n’è andato, il cavaliere sul cavallo bianco nemmeno. E allora chi è? Sembra un esemplare perfetto da rubrica del cuore, l’uomo che tutte desiderano” rimuginò

Eppure, c’era qualcosa che non le tornava: non se lo immaginava in un amplesso accaldato tra lenzuola roventi.

Qualche sera dopo scoprì quanto si sbagliava.

Lui la stava abbracciando e iniziò a farle le fusa vicino all’orecchio: un dolce ron ron le vibrava vicino al collo e di lì a poco (pochissimo, a dire il vero) si ritrovarono in un insperato amplesso estremamente caldo in lenzuola assai roventi.

La passione dilagò, l’amore sbocciò come i fiori di pesco, da un giorno con l’altro sotto i raggi del sole improvviso di primavera: si amavano a tutte le ore del giorno e della notte, ripetutamente e gioiosamente, in lungo e in largo, dappertutto e attaccati a tutto quello che potesse reggere il ritmo del loro amore.

Lui le chiese di andare a vivere insieme, lei ci pensò un po’, poi si disse “chi non risica non rosica”, e anche la convivenza filò via liscia.

O forse no.

Delle macerie del passato lei aveva conservato un ex marito, con cui intratteneva cordiali e sporadici rapporti telefonici, e un numero imprecisato di ex, che in poco tempo si dileguarono.

Non fecero lo stesso le ex di Luca, secondo una legge della fisica, scientificamente ancora non provata: se una donna trova un compagno, i suoi ammiratori spariscono, se un uomo trova una compagna le ammiratrici aumentano e le ex non si schiodano, anzi.

Ma lei non era gelosa, no! Tra loro le cose andavano così bene.

Finché Claudia telefonò per la seconda volta alle sei del mattino.

Qualche sera lo trovò seduto sul letto, porta rigorosamente chiusa, a telefonarle a bassa voce, e la sua, di voce, invece, la alzò e di brutto anche.

Luca non disse nulla, ma quella sera a cena le raccontò per la prima volta la storia dello zio Pippo: aveva una sessantina di anni, non si era mai sposato e viveva da solo in una casa di campagna sulle falde dell’Etna. Quando non si riposava da improbabili fatiche in Sicilia, viaggiava per il mondo. Preferibilmente in posti di mare, sempre in spiaggia, faceva la bella vita e cambiava donne come altri le camicie.

Dicono che gli somiglio, ah ah.

Era spiritoso, Luca, mentre raccontava e lei rideva divertita.

Lui diradò le telefonate alla rivale, anzi “non la sento più, le ho parlato chiaro, sai all’inizio lei si era tanto dispiaciuta di questa nostra cosa”

“Nostra cosa?” pensò lei.

“Ma ora…”

Dopo qualche settimana, lei gli disse che sarebbe andata in America con la madre e la sorella

“Vengo anche io, ti prego!”

La sventurata rispose sì.

“Anche se non mi piacciono le grandi città” aggiunse.

Visto che la meta era New York le sembrò un po’ incongruente, ma non diede peso alla cosa.

Dall’aeroporto presero un taxi, direzione Manhattan, Trump Tower, dove un suo amico aveva un appartamento “tieni le chiavi, divertiti!” gli aveva detto, con quella noncuranza che solo i veri ricchi possono avere.

Mentre attraversavano il ponte di Brooklyn e Elisabetta chiedeva al tassista indiano come mai passassero di lì, Luca aveva la faccia sempre più tirata, i capelli dritti in testa e gli occhi troppo aperti: la Grande Mela con tutto il suo rumore caotico, il movimento, il cielo nascosto dallo skyline gli faceva un brutto effetto.

Quando scesero lui scaricò le valige con un’espressione vacua, anche un po’ paracula se vi dovessi dire, passò accanto all’uomo in livrea, che accoglieva gli abitanti della Tower, scivolò nella porta che girava come una ruota panoramica tutta cristallo e ottone e, invece di godersi lo spettacolo di quel posto unico al mondo, lasciò cadere in malo modo il bagaglio davanti al concierge man, che gli stava dando il benvenuto e tentando – con tutto il garbo possibile – di identificarlo.

Luca prese ad apostrofarlo in italiano, poi si girò verso di lei fuori dalla grazia di Dio (lui, ma a breve anche lei) e iniziò a inveire:

“Non capisco quello che dice! Cosa vuole questo qui?”

“Ci sta chiedendo il documento” prese a dire la malcapitata, che vedeva sfumare poco per volta il suo sogno di una vacanza d’amore: non poteva credere che dell’uomo garbato e gentile, simpatico e leggero d’animo che conosceva, non fosse rimasta che una larva informe.

Riuscì a tacere (ma, si sarebbe chiesta nelle settimane successive “un bel vaffanculo non era meglio?”) e salirono in casa. L’appartamento era da mille e una notte: soggiorno triplo con vista panoramica, tre stanze da letto, tre bagni, una cucina enorme superaccessoriata (gli americani si sa esagerano sempre), morbida moquette dappertutto, arredi di gran classe, tutti su toni dorati.

Insomma, la Trump Tower non smentiva la sua fama.

La notte fu orribile, Luca continuava a borbottare nel dormiveglia frasi sconnesse, Elisabetta, gli occhi sbarrati, sperava in una rapida catalessi del suo fidanzato (mah, fidanzato…) che avvenne solo alle prime luci dell’alba, che lei scrutò pensierosa e sola, nel riflesso sui grattacieli che svettavano dietro la vetrata del salotto.

Quando Luca si alzò, la faccia era terrea, la barba lunga e ispida, i capelli ancora dritti in testa dal giorno prima.

Elisabetta gli preparò un caffè americano, che ovviamente non gli piacque, e gli propose di uscire a mangiare qualcosa e fare un po’ di shopping “ci sono tanti negozi e negozietti divertenti, magari troviamo anche qualcosa di italiano da mangiare, eh?” gli disse, sperando che l’attaccamento alla madre patria avesse la meglio su quella china discendente verso gli abissi del malumore.

Riuscì a convincerlo a uscire, si mise gli occhiali da sole che lo facevano tanto maledetto e impossibile, fecero qualche block ed entrarono in uno Star Bucks, dove lui ingurgitò nervosamente tre ciambelle, lei altrettante, sentendosi subito le cosce lievitare, come la pasta per la pizza quando riposa.

Il silenzio tra loro sembrò spezzare il rumore di sottofondo della città che non dorme mai.

Camminarono per un po’, lui la seguiva mogio mogio, tanto che Elisabetta preferì tornare a casa, sperando che attraversare gli spazi altissimi, luccicanti, verdi, dorati, con luci e alberi e scale mobili che andavano su e giù come in un quadro di Escher, l’ascensore trasparente che saliva veloce, gente che andava e veniva, lo distogliesse dai suoi incomprensibili pensieri, ammesso che ne avesse.

Ma la pupilla rimaneva catatonica e lei fece ricorso a tutto lo zen di cui era capace, salirono in casa, per farsi forza e uscire di nuovo per raggiungere la sacra famiglia di lei, che li attendeva per pranzo.

Siamo in vacanza, no?

No: erano prigionieri in un film di Bergman, ma non Ingrid. Ingmar: un polpettone scandinavo, quello dove lui e lei rimangono chiusi in casa per tre giorni e se ne dicono di tutti i colori, dopo anni di matrimonio. Il pranzo saltò e Elisabetta dovette sorbettarsi una seduta psicoanalitica.

Luca la inondava di un profluvio di parole per lo più dissennate, evocando più volte lo zio Pippo: “Sono come lui, ecco lo sapevo, non sarò mai felice, come posso renderti felice, non so cosa mi prende”.

E giù lacrime.

Ma veramente dovrei piangere io, pensava lei, che invece era senza parole, con Luca abbarbicato al braccio che frignava.

Quando riuscì a calmarlo e a metterlo a nanna, decise di andare a dormire nell’altra stanza, dove stentò a prendere sonno. Poi svenne per sfinimento.

La mattina dopo uscì da sola, era una giornata splendida con quei cieli azzurri e tersi, che vedi solo nella Grande Mela e cercò di godersela.

Dopo aver passeggiato un po’ rientrò verso casa, sperando di trovare una situazione meno claustrofobica del film che aveva lasciato, quando ecco lo vide che avanzava di fronte a lei: ray ban a goccia, sorriso demente, borsone inequivocabile.

Se ne stava andando.

Riuscì a fare la splendida: lo abbracciò e gli chiese in un sussurro:

“Parti?”

“Vado a Santo Domingo… sto andando all’aeroporto.”

“Portami con te!”

“No, parto da solo”

“Torni?”

Ma soprattutto, pensò ma non disse: “Sei sicuro di stare bene?”

Riusciva a preoccuparsi ancora del suo benessere e a mascherare il dolore lancinante che sentiva all’altezza dello stomaco, per non turbare una mente così palesemente in difficoltà.

O forse la verità è che non gli piaci abbastanza, come diceva quel tale? Il dubbio le venne spontaneo alla mente, pur obnubilata dal dolore, ma doveva dare retta allo squilibrato, che le stava comunicando che sarebbe tornato di lì a tre giorni.

“Allora ti aspetto?”

“Va bene, ciao!”

In qualche modo riguadagnò la strada di casa, si diede una rinfrescata e decise che non avrebbe detto nulla alla sua famiglia, notoriamente solidale con chi soffre.

Il primo giorno riuscì a reggere, nascondendo il pallore dietro il trucco un po’ più pesante del solito. Nemmeno all’occhiuta madre riuscì di intuire quello che stava accadendo e, non avendo particolare simpatia per il giovanotto, si accontentò con sollievo della spiegazione che fosse andato a fare un giro per conto suo.

A cena disse che Luca aveva mal di testa e aveva preferito mangiare in casa qualcosa di leggero, che si scusava.

La comunicazione di servizio cadde nell’indifferenza più totale. Non fu così il giorno dopo quando, stremata e convinta ingenuamente che i suoi familiari avessero un cuore, Elisabetta confessò che lui se n’era andato via, ai Caraibi, che fa tanto “anche i ricchi piangono”, ma questo si limitò a pensarlo in un momento di lucida autoironia.

La parola più gentile che volò per la stanza fu “stronzo”, ma anche “stronza”, “ecco tu davanti a un uomo non capisci più niente, non hai dignità, cosa fai, lo aspetti?! Ma sei pazza, adesso vieni via con noi, ha offeso la famiglia”.

Il tutto accompagnato da urla da compare Turiddu e gesti eloquenti del disprezzo che non solo lui, ma anche Elisabetta meritava.

Il tutto fu peggiorato da telefonate transoceaniche della madre del fuggiasco che la rassicuravano che lui, non sembra, ma ti ama, ti prego aspettalo, è sempre stato così ecc. 

Il fedifrago fu incredibilmente di parola e rientrò a notte fonda tre giorni dopo, in condizioni pietose, istericamente divertito di avere fatto splendide amicizie sulla spiaggia e di avere fatto surf e mangiato aragosta, e preso il sole e ballato il merengue tutto il giorno.

Elisabetta, invece di mandarlo a quel paese, pazientò ancora. Lo rifocillò, lo mise a letto e poi decise che basta, si rientrava in Italia.

Una volta tornati a Milano, le strade di Elisabetta e Pippo, ops Luca si divisero, dopo mille ringraziamenti della madre di lui, preoccupatissima dello stato emotivo del figliolo salvato dalle tenebre della sua mente grazie all’ausilio della stupida crocerossina.

Elisabetta riuscì a non credere alle sue rassicurazioni sul grande amore di Luca nei suoi confronti ed evitò accuratamente di sentirlo, incontrarlo, non potendo rinunciare ancora a pensarlo.

Il tempo si sa è il medico di tutti, anche dei pazzi per amore e dopo un po’ il pensiero andò assottigliandosi fino a svanire come un filo di fumo.

Credeva di avere dimenticato, quando un paio di anni dopo per motivi di lavoro incontrò un collega, che lavorava nello stesso studio del fratello di Luca.

Ignaro (o forse no, chi lo sa) il giovane avvocato portò saluti e notizie aggiornate: “Non lo sapevi? Luca si è sposato due mesi fa!”

Stub. Questo è quello che provò. Anche sob.

Anni di allenamento alla dissimulazione la portarono a dire, invece: “Sono contenta per lui! Fagli le felicitazioni da parte mia, se lo vedi!” con un sorriso che sembrò perfino spontaneo.

La verità è che non gli piacevi abbastanza.

Vaffanculo zio Pippo.

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La sfiga formato export non è male. Trump Tower, the big apple, c’era tutto tranne il sesso. Ma queste amiche mie di cosa hanno paura, di qualche gemito e fremito carnale? Sesso! Sesso! Poi ce lo aggiungo io.

Era Annalisa che pensava.

Claudia si voltò verso Paola, che le stava porgendo il suo Moleskine. Si schiarì la voce, e …