Cartoline d’Italia: La valle dell’Inferno (Roma che non c’è più, nei ricordi di una spettatrice)
Il fumo, quel fumo grigio che le alte ciminiere sputavano fuori per 10 ore al giorno, tutti i giorni era ormai una costante nel piccolo borgo, nessuno tra gli abitanti della valle ci faceva più caso, non se ne accorgevano gli occhi perennemente arrossati né i polmoni, abituati dalla nascita a respirarli.
Non si parlava di inquinamento, certo l’aria non era salubre, ma il borgo era nato proprio lì, attorno alle fornaci che sfornavano i mattoni con cui si costruiva Roma.
Ce ne erano davvero tante di ciminiere nella campagna che circondava il borgo, d’altronde la zona era ricca di argilla, il materiale necessario per l’impasto del mattoni, e n’era ovunque, i bambini la lavoravano per gioco e i più birbanti organizzavano vere e proprie battaglie al lancio della creta.
Il borgo era cresciuto un po’ alla volta mano a mano che il lavoro richiedeva mano d’opera. Gli operai arrivavano dai paesi vicini, ma anche dal lontano sud. La comunità del borgo era molto accogliente e presto si arrivava a farne parte, qualsiasi fosse la provenienza o il ruolo che si occupasse nella piccola società.
Era questa la peculiarità della gente del borghetto non si facevano differenze né tra le persone né tra i ruoli. I proprietari delle fornaci, gli operai, le loro mogli, tutti lavoravano per ottenere un buon rendimento, chi, non direttamente, aiutava cucinando, portando acqua e svolgendo i lavori utili alla comunità. I salari erano bassi, ma tutti si aiutavano, nessuno si sentiva diverso e questo li rendeva uniti e quindi forti.
Le sembrava di vederli, affacciata alla finestra della sua stanza, il naso schiacciato sul vetro gelato appannato dal suo respiro. La finestra della sua stanza di ragazza, quel paesaggio a cui voltava lo sguardo nelle pause dello studio, guardava quello che restava del borghetto. Si col tempo la situazione era cambiata, di tutte quelle alte ciminiere ne erano rimaste soltanto due, in disuso da quando le tecniche di costruzione erano cambiate e il cemento armato aveva preso il posto del mattone. Il borgo era sopravvissuto. Molte delle famiglie erano rimaste lì, adesso ognuno faceva altri mestieri, ma erano ancora una comunità coesa. Ci si ritrovava nella Casa del popolo, a due passi dal monumento eretto in onore di quelli di loro che avevano perso la vita combattendo l’oppressione e il nemico. Lì si giocava a carte, si beveva insieme e si discuteva di politica, di proletariato, di lotta… Lei aveva sempre vissuto ai margini di questa comunità, con la distanza di un osservatore distaccato ma affascinato. Nella casa del Popolo c’era entrata si è no un paio di volte, perché dentro c’era una cabina telefonica, di quelle grigie con la porta di ferro e un rivestimento interno beige tutto bucherellato. Lei ci andava con la sua sacchetta di gettoni e insieme ad un’amica che le faceva da spalla. Affrontava gli sguardi di tutti quegli uomini, giovani e anziani, che sospendevano per un istante i loro giochi, fermavano le grida e le bestemmie e le guardavano curiosi. Le ragazze si affrettavano ad infilarsi nella cabina, quello era l’unico telefono pubblico vicino, da cui lei poteva chiamare il suo moroso lontano. Lo faceva di nascosto di suo padre, che non voleva, ma che tantomeno le avrebbe permesso di entrare lì, tra quelle persone.
Con la sua famiglia, abitava sulla collina soprastante il borgo e scendere fin giù le era proibito.
La zona non era sicura, in realtà la gente del borgo era storicamente temuta, si diceva che anche le bande delle camicie nere, ai tempi del fascismo, le prendevano di santa ragione ogni volta che si avvicinavano e sembra che gli stessi nazisti evitassero la zona. Allora però era lotta politica, adesso circolava in zona qualche ceffo poco raccomandabile. Di solito era gente venuta da fuori, senza casa, gente senza mestiere. Arrivavano, costruivano baracche intorno al borgo e vivevano di espedienti.
Più tardi qualcuno nell’amministrazione decise che quella borgata andava eliminata, che la zona andava riqualificata cosi si presentarono con inquietanti marchingegni e cominciarono a demolire. Anche stavolta la resistenza della comunità si fece sentire, le persone anziane si rifiutavano di lasciare le loro case, costruite letteralmente con la fatica e il sudore dei loro nonni e genitori. Fu una lotta improba e ai fornaciari e ai baraccati fu assegnata una casa nel complesso popolare appena sorto a 500 metri di distanza. Un mostro edilizio nato nella valle, una decina di altissimi palazzi color cemento che ferirono per sempre il paesaggio. La distruzione del borgo fu poi interrotta, lasciando in piedi solo poche case, quelle lungo la strada e la vecchia chiesa. Forse qualcuno più lungimirante aveva intuito che cancellare la memoria storica di un luogo è una follia.
Le capitava di affacciarsi di sera, dopo il tramonto per guardare quel che rimaneva del borgo, lo vedeva accendersi piano piano di luci fioche che nell’oscurità trasformavano quel paesaggio quasi spettrale in un misterioso presepe animato. Osservarlo così nel buio la portava indietro in un tempo che non conosceva, di cui aveva solo sentito parlare e le restituiva una profonda malinconia di vita passata, perduta.
Ora si affaccia da una nuova finestra, quella della sua casa di adulta, si trova un po’ più su, sulla collina che domina la valle, la stessa valle. La prospettiva è un po’ diversa, anche lei è diversa, anche il borgo è cambiato, tanto tempo è passato.
I ruderi diroccati non ci sono più, le case che erano rimaste in piedi sono state ristrutturate con cura e rivelano tutto il loro fascino dovuto ad un’architettura particolare e ricercata. Erano bravi architetti i fornaciari.
Le case semi cadenti sono state ricostruite nel rispetto dello stile valleggiano e il borgo è bello visto da lassù. Lo abitano persone nuove, che attratte da prezzi moderati e dalla pace della natura che ancora oggi avvolge il borgo, hanno scelto di farne il loro posto del cuore. Spunta ancora proprio dietro al boschetto che fronteggia la sua finestra, la cima di un’ultima superstite fornace da cui alcune volte lei immagina di vedere uscire del fumo. Qualche volta chiude gli occhi cercando di sentire il calore salire dai forni, sentire le voci dei fornaciari e dei loro figli che giocano tra i campi, lo scorrere di un fiume che lei non ha mai visto, affidato all’oblio da quintali di cemento.
In piedi sul balcone riassapora la malinconia, ora più struggente e si sente tutt’uno con la vita che scorre.
Paola Nicoletti è nata, vive e lavora a Roma, ma è molto legata alle sue origini Cilentane e soprattutto al mare, il suo mare.
Legge molto, scrive: poesie, racconti, libri. Si occupa di teatro, scrive sceneggiature, cura scenografie e costumi.
Organizza eventi culturali. Cura da dodici edizioni il “Tea Poetry” una sorta di varietà artistico che si tiene in teatro.
Si occupa di sociale, è responsabile del settore cultura dell’associazione Donne al centro.
È vice presidente dell’Aicab APS, associazione che coniuga la cultura con il sociale.
È mamma di tre figli ormai grandi. Il più piccolo è autistico. Ne parla in un libro: Raccontami il mare che hai dentro (vivere con un figlio autistico). Porta le sue parole e la sua faccia nelle scuole, nelle università, testimonia l’autismo visto da dentro.
Ama la gente, la studia, ne scrive. Crede nella collaborazione, nel sostegno reciproco, nella forza delle donne che si tendono una mano, nella famiglia e nell’amore come energia positiva da seminare e raccogliere.