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Libri: I luoghi del delitto di Luigi Pintor

I luoghi del delitto di Luigi Pintor

 “La mente è un archeologo che scava tenacemente nel passato e mi conduce di prepotenza dove non vorrei andare”. 

È un libello del 2001, edito da Bollati Boringhieri, poco più di 70 pagine, si legge in un’ora. Luigi Pintor ci accompagna metaforicamente sui luoghi del delitto: reati non commessi direttamente ma nemmeno impediti. L’eterna guerra in una terra chiamata Santa che più profana non si può; la mattanza vista in mondovisione nella città “famosa per aver dato i natali a un marinaio che scoprì un continente sbagliando rotta”, o quelle immagini di un martedì di settembre, che non erano “l’incendio della città di San Francisco visto al cinema un secolo prima ma una ripresa d’attualità della città di New York”. Senza citarli, evocandoli soltanto, nella riflessione di un presunto malato terminale che fa i conti con la propria vita e con tutto quello che c’è stato dentro.

Da bambino, scrive Pintor, mi auguravo di diventare un idiota, “che per i greci vuol dire stare in disparte, con innocenza”. “Invece uno stupido si impiccia di tutto senza capire nulla e mio malgrado ho preso questa strada”. Una confessione laica la sua, che è un’assunzione di responsabilità, per quanto compete ad ognuno. Perché alla fine non è tanto la malattia a fare paura, quella si cura, a volte con un trapianto, e si tira avanti ancora un po’. È la memoria che ti frega, e quella non può essere nemmeno presa in prestito. Allora?“(…) Finché l’uomo non si porrà di sua volontà all’ultimo posto tra le creature sulla terra non ci sarà per lui alcuna salvezza (…). Certo che “se l’uomo fosse capace di porsi volontariamente in basso non ci sarebbe più bisogno di questo atto di umiltà. Sarebbe un altro uomo (…). Secondo Pintor però, “Pretendere che lo sia è come chiedere a un cieco di guardarsi nello specchio”. 

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