L’INCREDIBILE BUON SAMARITANO DI VAN GOGH
Le Parabole e l’Arte: tante piccole e bellissime storie da ascoltare con gli occhi e leggere con i sentimenti
“Ho dipinto una copia del Buon Samaritano di Delacroix”, scrisse Van Gogh in una lettera al fratello Teo.
Erano gli inizi del mese di maggio 1890 Vincent van Gogh era ricoverato all’ospedale psichiatrico di Sant-Remy in Provenza, dipinse questo quadro due mesi prima della morte per presunto suicidio avvenuta il 29 luglio. È di una tale intensità, quest’opera, da sembrare un testamento.
Scelse di raccontare una tra le storie sacre meno rappresentate dagli artisti. Eseguita con la sua consueta caratteristica pennellata, densa e carica di colori accesi stesi in maniera concitata e pastosa, la parabola del buon samaritano viene immortalata con un trasporto umano ed emotivo da renderne unico il messaggio, andando oltre il messaggio teologico.
Vincent Van Gogh (Zundert 1853 – Auvers-sur-Oise 1890) conosce bene la parabola del buon samaritano: figlio di un pastore protestante, aveva una profonda conoscenza delle Scritture e della letteratura cristiana. Conosce però anche i segreti della vita e del dolore. Conosce il senso di isolamento di un’anima malata. Sa cosa vuol dire convivere con il senso di abbandono di chi viene isolato e lasciato solo; sa che si può essere privati della propria dignità dallo sguardo indifferente dell’altro.
Soprattutto ci svela che l’abbraccio, tema centrale di quest’opera, non è un gesto. Ma una scelta.
Perché abbracciare significa scegliere di prendersi cura dell’altro. E accoglierlo.
La “sua” parabola spiega che ad accogliere e abbracciare si fa fatica. Un corpo inerme pesa, ti sbilancia, ti sgualcisce l’abito e ti costringe a fermarti.
Il Buon Samaritano di Van Gogh è un uomo che sa dare conforto, a cui si affida l’uomo che viene soccorso.
Penso che in un modo o nell’altro, Van Gogh abbia saputo identificarsi con entrambe le figure della parabola. Sono sue l’angoscia di chi conosce la discriminazione che è come uno schiaffo in pieno volto, conosce anche la difficoltà ad abbandonarsi nelle braccia di un altro individuo e scegliere, almeno per un po’ di vivere ancora. Soprattutto sa di cosa è fatta l’indifferenza del mondo verso la fragilità, la diversità, la malattia.
Sa che l’abbraccio, che qui campeggia nell’intero quadro, è totalizzante. E comprende anche noi; non esclude nulla e nessuno. Con noi condivide l’immenso il valore dell’abbraccio, che soccorre, cura e salva.
Alla fine, la storia di questo Buon Samaritano di Van Gogh sembra essere il racconto della propria testimonianza di uomo: perché l’abbraccio incondizionato dà vita. Ed è vita.
E tutto ciò che non è compreso nell’abbraccio, no. A osservarla bene, la scena, capisci che quell’abbraccio è fisico, faticoso, sanguigno. Non ha nulla di simbolico. Perché per aiutare l’altro è necessario rimboccarsi le maniche, sudare, sporcarsi e rischiare di inciamparsi; a volte bisogna addirittura dimenticarsi di sé stessi. Ma è chi sta fuori da questo abbraccio che si trova ad essere collocato in un secondo piano: le figure del sacerdote e del levita, vengono ignorate da Van Gogh e relegate all’indifferenza; la stessa che hanno dimostrato loro verso il viandante ferito. I due “piccoli” e un po’ “viscidi” personaggi sono silhouette in marcia verso Gerico. Ma sono comparse prive di valore.
Le immagini e le opere d’arte hanno il grande potere di emozionare e insegnare. Gli artisti come Van Gogh non sono semplici traduttori di parole in immagini. Parabole e storie. Sanno semmai far rivivere l’emozione e il dolore, la sofferenza e la grandezza. Perché è sempre il loro personale punto di vista a “parlare”.
È sguardo di Van Gogh a parlare. L’immensità di certi suoi sentimenti sono fatti di dolore profondo, misericordia e la compassione e comunicano solo attraverso un abbraccio incondizionato.
L’arte ha questo merito. Sa svelare sempre quello che non si vede e che si tende a nascondere.
Paola Springhetti, nel suo saggio Il Buon samaritano nell’arte, spiega che questa sia una tra le parabole più conosciute e meno rappresentate nella storia dell’arte. Ma cheogni artista, in ogni epoca storica l’ha rappresentata in maniera differente, mettendo in luce, ogni volta, aspetti particolari, insegnandoci, sempre.
Questa parabole è stata narrata nelle grandi vetrate delle cattedrali di Chartres, Brouges, Sens, nelle tele dei grandi del Cinquecento con l’obiettivo e l’impegno di insegnare, educare e catechizzare il gregge del popolo di Dio. E poi da artisti contemporanei e da Van Gogh. Che ci racconta una parabola diversa da quella dell’evangelista Luca; ci fa conoscere l’abbandono, la solitudine, il dolore a causa dell’indifferenza altrui.
Ci spiega che l’attenzione verso l’altro può salvare. Ma è sempre una scelta. È la scelta che si oppone all’indifferenza. È una scelta che costa sempre un po’ perché ci rallenta, ci mette alla prova e richiede impegno.
Quando non basta, bisogna fare quello che fa il cavallo del buon samaritano di Van Gogh, stare con le orecchie tese, impegnati all’ascolto del bisogno dell’altro, aspettando.
Alla fine Van Gogh ci regala un’ultima grande verità: all’uomo non servono i miracoli; sono già cura l’abbraccio il saper ascoltare e aspettare l’altro.
Vive e lavora a Genova, insieme ai suoi libri, dove svolge la propria attività di giornalista professionista e studiosa di storia della critica d’arte e Futurismo. Convive con la SM da 18 anni. Ama la scrittura e le parole, il figlio, la vita, la sua famiglia.
Al suo attivo molte pubblicazioni e monografie di storia dell’arte. Svolge la professione giornalistica con passione da oltre trent’anni, si muove tra la carta stampata, i nuovi media, la TV. Ama parlare delle persone, con la gente e sempre a vantaggio della cultura sociale che fa crescere e aprire occhi e cuore. “Le persone sono sempre scopo primo e ultimo della mia scelta professionale, come servizio agli altri. Senza riserve”.