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lo sguardo rosa sulla società

Protagoniste: Sabrina Paravicini

Il nostro Direttore Monica Di Leandro intervista a Sabrina Paravicini, attrice, regista, imprenditrice
Il nostro Direttore Monica Di Leandro intervista Sabrina Paravicini, attrice, regista, imprenditrice

C’è un netowrk di donne speciali, imprenditrici e professioniste che fanno rete, si adoperano le une per le altre ma soprattutto fanno mentoring. La loro missione è imparare, condividere e crescere insieme.

Le ammiro e le seguo, le donne di PWN Rome (https://pwnrome.net/) e partecipo quando posso ai loro seminari, ai loro programmi e ai loro incontri, purtroppo per ora forzatamente online, chiamati “Inspiring talk” ovvero dialoghi con donne che ispirano per il loro esempio, la loro storia, la loro costanza, la loro innovazione. Ogni talk è diverso, ogni esperienza è unica. Io ho avuto la fortuna di incontrare e moderare il talk con Sabrina Paravicini, attrice, regista, imprenditrice, sopravvissuta e mamma.

Confesso, la conoscevo sia dalla TV che poi dal cinema. E la ammiravo. Delicata, occhi profondi, domina la scena ma senza aggressività. Ha zigomi alti, bellissimi. La prima volta che la vidi dal vero pensai che aveva il volto di una bambola di porcellana, così delicata. Ma la sua storia è ben diversa. È la storia di una donna forte, forgiata dalle vicissitudini, tante impreviste, articolate, resiliente come i cipressi alti che si piegano al vento, ma che sempre è rimasta una guerriera “gentile”.

Sabrina Paravicini è quindi attrice, regista, artista a tutto tondo ha quello che nel proemio dell’odissea veniva definito un “multiforme ingegno”, definizione che veramente la rappresenta. Ma è anche mamma di un meraviglioso ragazzo, Nino, protagonista e co-autore del suo film “be kind – un viaggio gentile all’interno della diversità” di cui parlaremo.

Sabrina, partiamo dal tuo essere mamma. Oggi c’è grande dibattito nel rappresentare la veste di mamma per una donna professionista, che cosa pensi? Mamma e professionista possono coesistere? O forse una rafforza l’altra?

Essere mamma ed essere professionista non è facile, soprattutto in un paese come l’Italia che non ti viene incontro su nulla. Per esempio nel mio campo spesso, con rarissima eccezione, nel momento in cui si diventa mamme ci si allontana un po’ dal dall’ambiente, dal set e si fa molta fatica rientrare perché è un ambiente molto competitivo dove ogni anno nascono volti nuovi – adesso poi ne nascono ancora di più rispetto a quindici anni fa o venti anni fa, perché con tutti i reality che danno tanta popolarità ad attori che magari non erano conosciuti, diciamo che la concorrenza diventa talmente alta che è difficile rientrare. Nel mio campo, chi si allontana un po’ e si vuole godere la maternità per un po’ più di tempo va un pochino fuori mercato ed è difficile rientrare.

Nel mio caso, andare fuori mercato è stata una scelta; diciamo andare fuori dal contesto lavorativo, perché poi io in realtà sono rimaste incinta a 35 anni quando avevo appena chiuso un film da protagonista-produttrice-regista e quindi mi sono detta ma sì, mi posso permettere di stare qualche mese di più a godermi questa cosa nuova che ho voluto molto è che era una nuova avventura. Quindi invece di restare ferma un anno come avevo preventivato, alla fine sono stata ferma a 10 anni perché quando il mio figlio aveva due anni abbiamo avuto diagnosi di autismo, che ha comportato da una parte una grande paura, dell’incognita di una diagnosi così sfumata – infatti ci avevano detto “ci saranno delle diagnosi non ci sarà mai una prognosi” ovvero ci saranno delle diagnosi rivedibili ogni sei mesi che confermeranno la prognosi per aggiustare la terapia. Quindi questo percorso è iniziato con una grande sofferenza, perché un figlio che non sta bene e che non ha una possibilità di cura definitiva è qualcosa che ai genitori spaventa molto, fa paura pensare che tuo figlio possa non avere un futuro e quindi questa cosa diventata un grande impegno da parte mia, mi sono impegnata molto a fare in modo che invece questa diagnosi fosse fortemente rivedibile e lo è stato in realtà perché poi non ho avuto un decorso di questa autismo che si è trasformato nel un altissimo funzionamento!

E qui arriviamo alla gentilezza, al film: si intitola “be kind” sii gentile.

Sì. È un progetto che è nato quando Nino aveva 12 anni, per dargli autonomia. Aveva appena iniziato la prima media, subito si è capito che era necessario molto impegno da parte sua ed anche nostra, ed ad un certo punto mi sono detta “ma non possiamo passare la vita tra la scuola e compiti del pomeriggio!” Faceva terapia anche durante la settimana, per cui mi sono detta “adesso dobbiamo assolutamente fare qualcosa che ci possa unire e ci fa ci faccia divertire” allora gli ho proposto di girare questo film insieme a me, di fare il co-regista di questo film, che fondamentalmente è un documentario pieno di conversazioni, circa 40, con persone che della diversità hanno fatto un valore aggiunto. Quindi diversità a 360 gradi non solo l’autismo ma anche la sindrome di Down, diversità psichica, fisica, disabilità fisica, diversità di colore della pelle, di religione, di scelte di vita, di gender. Samantha Cristoforetti ha dato un contributo molto bello sul valore della diversità nel momento in cui si fanno delle scelte, per esempio. Insomma, sentire le opinioni di tutti porta ad una scelta molto più importante. Roberto Saviano con cui non ho fatto una conversazione sulla teoria della felicità di Epicuro, dava a Nino delle dritte su come vivere felice. Alla fine questo progetto che era nato per unire l’esperienza familiare di gentilezza all’idea di trattare il mondo la diversità con gentilezza, per creare intorno a questa diversità un contenitore di persone gentili che sostenessero questa diversità è invece poi diventato un vero e proprio film, tanto che ci hanno invitati a Taormina. Quando Nino l’ha visto in anteprima a Taormina, nella sala buia, se n’è uscito con una grande risata ed è stato un momento molto bello per me.

Abbiamo ricevuto tanti premi, il film è stato selezionato in tanti festival internazionali,  abbiamo vinto una menzione speciale anche lì a Taormina, e anche un Nastro d’argento che praticamente è il premio più importante che abbiamo ricevuto noi, perché è fatto da giornalisti della critica cinematografica italiana, per cui essere stati premiati da loro ha dato un valore vero al film e al di là delle mie aspettative! La mia idea iniziale invece era quella di affittare un cinema qui a Roma, un grande cinema da magari 400 – 500 posti e far vedere quello che avevamo fatto io e Nino nel corso di un anno ai nostri amici, i parenti. Invece questa cosa è andata proprio al di là di ogni aspettativa, abbiamo fatto anche il “tour gentile” stati a Milano, Torino, Bologna, Firenze ecco ci manca il Sud ma c’è stato la Covid e devo dire che da artista sono molto dispiaciuta che cinema e teatri sono chiusi, perché comunque anche questo evento sarebbe stato diverso in presenza, sarebbe stata un’altra cosa, certi valori e condivisioni vanno fatte proprio con le persone che stanno gomito a gomito nella sala buia, con le emozioni che veramente girano nell’aria. Per esempio a Cannes, in sala, è stato pazzesco, perché l’energia si trasmette a livello esponenziale, una persona in sala viene a contatto con almeno 10 persone a cui trasmettere questa emozione sulla gentilezza, e le altre persone a grappolo a loro volta in modo esponenziale…. si può creare veramente una sorta di “etichetta gentile” legata al principio che parte dal film, ma poi si espande nella vita quotidiana…

Il valore della gentilezza per noi è stato mettere tutto quello che avevamo imparato dalla diversità con cui eravamo a contatto, prima con mio figlio ma poi anche con tutte le persone che ho conosciuto nel Centro di terapia, bambini, ma anche adulti che magari hanno avuto degli incidenti molto gravi e facevano riabilitazione fisica. Così, sono passata dal non avere contatti, all’essere completamente immersa nella diversità sotto ogni forma e la distanza con la diversità si era così accorciata che ho voluto provare a raccontare questa dimensione molto “corta”,  quella della diversità, in questo film.

Infatti c’è un hashtag che tu continui a propagare #letsbekind che dovrebbe essere un’esortazione: siamo gentili!  Sabrina, mi è piaciuto quando hai detto che la gentilezza la vedevi con una sorta di rete su cui Nino avrebbe potuto eventualmente appoggiarsi, su cui magari avrebbe potuto in qualche modo far affidamento. Come vedi invece la gentilezza nella professione? Noi donne ci possiamo permettere di essere gentili?

Io penso che abbiamo il dovere di essere gentili nella nostra professione, perché essere gentili non significa essere fragili: ci vuole molto coraggio, molta determinazione, molta forza per essere gentili, perché cercare di risolvere un conflitto con la gentilezza, qualsiasi conflitto sia in famiglia che sul lavoro, è una dote. Non è da tutti, però bisognerebbe arrivarci anche perché risolvere un conflitto con la gentilezza ti porta a sorprese straordinarie, anche a livello di efficacia.

Per me è diventata una bandiera, la gentilezza. Anche quando stavo girando il film, i problemi che potevano esserci a livello produttivo, mi facevano dire “ma insomma! io non mi devo arrabbiare, non mi devo preoccupare né agitarmi, devo tenere il punto sulla gentilezza sto facendo un film che si chiama sii gentile non posso essere la prima a non essere gentile con tutti mentre stiamo facendo questa cosa”.

Devo dire che io ci sono arrivata, ad essere gentile, non ci sono nata. È mio figlio mi ha insegnato la gentilezza perché per lui era geneticamente innata, i bambini con Sindrome di Asperger non hanno malizia né cattiveria, si sorprendono di ogni cosa, sono come degli angeli, sono come dei fiori, io infatti dicevo sempre alle maestre “voi dovete pensare che la classe è un giardino e voi avete margherite, avete rose con le spine, ma Nino è un’orchidea, un fiore fragilissimo”. E quindi questa gentilezza me l’ha trasmessa lui, me l’ha insegnata, perché non dovevo guardarlo per quello che non sapeva fare, ma sempre per quello che sapeva fare e valorizzare quello quel che lui sapeva fare, perché la cosa fondamentale è che fosse un bambino felice ed oggi è un ragazzo immerso nella felicità…. La gentilezza secondo me si trasmette, si può insegnare, si può imparare e io penso che sia anche contagiosa, cioè con una persona gentile non puoi non essere gentile, perchè comunque nel momento in cui tu hai una risposta di rabbia, quella gentilezza ti disarma, è un’arma contro la tua rabbia, è disarmante.

Torniamo, Sabrina, al tuo multiforme ingegno. Non sei solo attrice televisiva – come ti abbiamo conosciuto tanti anni fa, non sei solo attrice cinematografica, non sei solo regista, non sei solo sceneggiatrice, non sei solo scrittrice. A proposito dei libri che hai scritto, vorrei che ci parlassi di “Fin qui tutto bene” che è un’altra tappa importante del tuo viaggio personale.

Ricordo che per la giornata mondiale dell’autismo nel 2019 abbiamo cominciato a fare l’uscita pubblica di “be kind” che era associata ad un mio libro che si chiamava “Io ragiono con il cuore” ed era la storia mia e di Nino dalla diagnosi di autismo fino al film. Il 22 aprile io già non avevo più i capelli per la chemioterapia ed andavo a promuovere questo film con la parrucca. Quando durante le interviste mi chiedevano che progetti avete per il futuro, Nino mi guardava negli occhi guardava  come dire “dillo, dai” e io non lo dicevo perché non mi sembrava giusto in quel momento coprire la bellezza di “be kind”, il suo messaggio di grande positività e di grande emozione con qualche cosa che potesse rattristare. Quando ho finito la la promozione del libro e del film, l’ho annunciato a tutti partendo da un post su instagram ed era un post dove si vedeva che non avevo i capelli e Nino lì mi accarezzava con la sua maniera la testa senza capelli e mi diceva “bella pelatina”. Tutta questa fase della cura ho cercato di viverla sempre in proiezione della fine della cura, cioè per me non avevo i capelli ma sarebbero ricresciuti, tutta questa cosa era era proiettata verso un futuro di guarigione e quindi a un certo punto ho deciso di dirlo, ho creato questo altro hashtag che si chiamava #finoaquituttobene perché raccontavo giorno per giorno quello che vivevo sia fuori che a casa,  le sensazioni che avevo dalla cura perché poi lo dico anche nel libro, che passiamo da una situazione normale dove stiamo bene e poi arriva a diagnosi, di cancro al seno nel mio caso, che ti proietta in una situazione diversa: un attimo prima tu stai bene e poi ti dicono che devi salvarti la vita e per salvarti la vita ti devono fare una cura che fondamentalmente diventa la tua malattia, perché la cura è così improvvisa, così offensiva per il corpo e per la mente che diventa quasi la tua malattia. Io mi sono ritrovata ne raccontare come affrontavo questa cura e come affrontavo anche questo nemico che però per me era una questione di onore, c’era un amico che io dovevo trattare con onore per cui nel libro lo dico: non l’ho mai chiamato né mostro né bestiaccia, l’ho sempre affrontato considerando che era una parte del mio corpo che in qualche modo si era infiammata, si era ribellata. Io ho una mia teoria, che il cancro è una malattia che si sviluppa quando il corpo è già infiammato per vari motivi, per l’inquinamento, l’alimentazione sbagliata, per uno un problema metabolico, anche per lo stress, ci sono cose che purtroppo si mettono tutte insieme e creano una “combinazione” devastante. Ho cominciato anche a lavorare su di me, per capire se questa cosa era arrivata anche per dirmi qualcosa, infatti lo dico nei libri dico che non ha mai pensato “perché a me?” ho pensato “meglio a me, perché posso trasformare questo dolore in qualche cosa che possa essere utile agli altri”. Ho lavorato su tre fronti: uno, ho iniziato subito a girare un altro film documentario su questa cosa, mi riprendevo da sola con l’iPhone nei momenti in cui stavo male, a casa, di notte, mentre non riuscivo a dormire per il cortisone o le nausee insomma ho composto un altro film e contemporaneamente raccontavo la mia storia sui social. Invece il libro è in realtà arrivato inaspettato perché è stata una proposta della casa editrice, mi hanno contattata e mi hanno detto “se vuoi racconti quello che stai raccontando, ma in un libro” per cui io ho detto sì, però lo voglio fare a mio modo. Ho scritto le prime dieci pagine e le ho mandate dicendo “questo il tenore del libro”. Le prime pagine del libro sono molto potenti, perché inizia con la lista che io chiamo “la lista della spesa” che è quello che mi è stato fatto in 365 giorni. Sono tipo due pagine e mezzo di cose che pensavo non avrei visto, non pensavo che avrei mai vissuto o che avrei potuto vivere in tutta la mia vita. È piaciuto e abbiamo pubblicato il libro.

Mi ha colpito, hai fatto diverse volte riferimento al “racconto” ed ora mi vorrei soffermare su un’altra fase del racconto: quello della diagnosi. Due volte hai usato questa parola nel raccontarti, ovviamente noi abbiamo selezionato a priori alcune “fette” della tua vita però hai parlato della diagnosi per Nino e della diagnosi nei tuoi confronti. Che che tipo di racconto è quello in quel momento? Quanto è diverso il fatto che parlassero di Nino e poi invece parlassero di te?

La verità è che la sofferenza più grande è stata la diagnosi di Nino,  perché non eravamo pronti, perché era piccolo, era qualcosa che non conoscevamo ed era una grande incognita non sapere se lui avrebbe potuto leggere o scrivere. Diciamo che ha fatto più di tutto quello che io mi ero immaginata. Mi prese, al momento della diagnosi, una grande sofferenza che è durata un paio d’anni, di grande dispiacere, di disperazione, di immobilità e che poi invece si è trasformato nella più grande avventura della mia vita. Ricordo che facemmo un viaggio a Parigi un paio d’anni prima del film. Questo viaggio è stato dettato da lui e includeva tutti i luoghi del videogioco per la ps4 Assassin’s Creed ambientato durante la rivoluzione francese, per cui aveva fatto una lista,  aveva 10 anni e ha fatto una lista e siamo andati proprio alla ricerca delle tracce di tutti i luoghi di questo di questo videogioco, e quindi a Notre Dame mi ha fatto fare la coda e siamo entrati perché dovevamo andare a vedere il confessionale dove uno dei protagonisti era stato accoltellato, per esempio. Abbiamo vissuto questa settimana ed è stato tra l’altro la prima volta da quando lui era nato che io facevo una cosa così lontana da casa, perché avevamo fatto viaggi in comfort zone quindi insomma toscana cose molto che se succedeva qualcosa in poco tempo si tornava a casa quindi prendere un aereo con lui da sola quando siamo andati a parigi oppure farsi 3000 e passa chilometri in macchina quando abbiamo fatto tutta la parte sud della francia… insomma la sua diagnosi è diventata òa grande avventura di tutti e due.

La mia diagnosi è stata strana, perché, lo racconto anche nel libro, ho avuto come un distacco dalla realtà. Quando mi è stato detto c’è un tumore maligno e poi dopo 5 minuti mi è stato detto dobbiamo iniziare subito la chemioterapia, dovrà prendere una parrucca, poi faremo un intervento chirurgico, forse la mastectomia, con la radioterapia… io ho avuto uno scollamento della realtà e ho pensato da una parte non sono io, non è vero, e dall’altro ho detto vado in un altro ospedale, mi faccio ridire tutto, rifare tutto ma poi sono uscita da quella stanza e cinque minuti dopo chiaramente ho preso coscienza del principio di realtà, sono tornata dentro e ho detto “va bene”. Ricordo di aver detto “la settimana prossima dobbiamo presentare il film vicino a Milano, posso andare?” mi hanno risposto “se è una settimana sì ma non di più” quindi ebbi anche la percezione della gravità della cosa.  Tra l’altro  avevo fatto questa ecografia e mammografia un mese prima e non era risultato nulla, poi ho avuto un ascesso al seno, il corpo ha violentemente parlato perché altrimenti se avessi aspettato anche solo sei mesi, probabilmente avrei avuto metastasi ai linfonodi. Però non era la sofferenza che aveva provato così grande per la diagnosi di Nino, nel senso che ho pensato “è una cosa mia, la posso controllare” e l’ho controllata tantissimo perché io poi mi sono impegnata nei mesi seguenti mi sono messa anche a fare una dieta strettissima togliendo tutti gli zuccheri e carboidrati e ho avuto risultati eccezionali già nei primi primo mese e mezzo. Rispetto al ricevere la diagnosi di Nino è stato un impatto molto diverso, molto meno di angoscia, molto meno di paura. Parliamo anche di 12 anni fa, dell’unico figlio, nessuno in casa aveva mai parlato di autismo,  era una parola che si usava anche un po’ a sproposito.

È vero,  penso che l’approccio allo spettro autistico sia da parte dei medici ma anche della scuola, per esempio, in 12 anni sia assolutamente cambiato.

Sì oggi si fa una diagnosi precoce anche a sei mesi, invece quando Nino aveva due anni ebbe una mia miosi precoce quindi noi abbiamo avuto la fortuna comunque di fare allora una diagnosi precoce, ma tante persone ci arrivavano all’inizio della scuola. Ricordo che avevamo pensato alla sordità, per cui abbiamo fatto tutte le indagini dell’orecchio,  ma non era.

E cosa t’ha fatto capire, quale fu l’indizio, il momento in cui hai detto ok Nino lo devo controllare?

Fu durante una vacanza al mare in Sicilia, Nino aveva un anno e mezzo e durante i pranzi metteva tutti i tappi sul tavolo, uno sull’altro e non vedeva niente, non vedeva nessuno. Nell’albergo dove stavamo c’era un bambino piccolo che non aveva ancora due anni, e questo bambino invece veniva sempre vicno, lo salutava e poi diceva al papà che aveva visto Nino in piacina quella mattina… Quindi questo bambino che era  più piccolo aveva un linguaggio più sofisticato, aveva una gestione della memoria diversa, mentre Nino non lo guardava, non si accorgeva neanche di questo bambino, per cui quando siamo rientrati ho chiamato il pediatra e gli ho detto io credo che mio figlio abbia un problema grosso e dobbiamo indagare.

Parlando di Nino, lui nel film “be kind” dice una frase molto carina sull’elefante e la proboscide.

La diversità è come l’elefante con la proboscide corta, è una rarità. Nella locandina c’è questo elefante che ha le orecchie da topo e le zampe da cane e la coda da elefante ma ha la proboscide corta ed è diventato il logo di “be kind” e indica che la diversità ha una sua peculiarità. Il film alla fine lo chiudiamo con “normale uguale niente di eccezionale”. Tra l’altro il termine “normale” è molto scomodo da dire, da ascoltare, da sentire. Trovo bellissimo questo concetto di integrare anche l’eccezionalità, quindi la diversità.

Sabrina, qual è il tuo prossimo progetto? Anzi, conoscendoti, quali sono i tuoi prossimi progetti?

Hai ragione, sono due. Il primo mio progetto è chiaramente quando  riapriranno i cinema e i festival si potranno fare in presenza, sarà consegnare al pubblico “b33” il mio nuovo documentario che si chiama così perché il primo giorno di chemioterapia io andai e mi diedero un bigliettino scritto a mano b33 quindi io ero b33 e questo fu per me da una parte uno shock perché ho detto “sono un numero” poi in realtà quando sono entrata sono stata chiamata per nome dall’infermiere in 3 ore almeno dieci volte, ma poi oltre al nome il rapporto è diventato “ciccina, tesorino” insomma devo dire la verità sembra un paradosso ma ho un ricordo bellissimo di dei momenti in cui facevo chemioterapia, un ricordo di grande accoglienza, ho conosciuto persone e l’infermiere molto carine e siamo diventati amici, ci facevamo anche delle grandi risate, spesso siamo stati anche sgridati perché ridevamo troppo! E quindi ho un ricordo molto bello e tutto questo ricordo sta nel film perché il film si chiama “b33 diario di un viaggio straordinario” perché straordinario per me lo è stato.

Un altro progetto è nato da dalla mia esperienza di paziente. Quando ho subito la mastectomia mi sono ritrovata con una cicatrice molto grande che dovevo curare perché e poi mi hanno spiegato che proprio lì nella cicatrice se si crea una grossa infiammazione e si può riprodurre il tumore per quello che poi partono subito a fare la radioterapia. In quel periodo la mia biologa molecolare aveva formulato una crema che io ho cominciato a mettere sulla cicatrice ma vedendo che gli effetti che faceva ho cominciato a metterla anche sotto agli occhi, intorno alla bocca per cui le ho detto  dobbiamo fare questa cosa insieme,  devi creare una crema e così abbiamo deciso di fare questa crema che si chiamerà UNA, una sola crema che va bene per tutto e abbiamo anche creato una srl per cui quest’anno sono diventata imprenditrice.

È bello il fatto che tu comunque hai sempre testimoniato, su instagram o scrivendo libri o pubblicando post sui social, quello che ti stava capitando. Lo trovo molto bello perché aiuta  non solo a capire, ma anche magari ad addentrarsi in qualcosa che è talmente strano e diverso che non si può comprendere.

Sì mi hanno scritto delle donne che avere seguito quello che ho vissuto le ha preparate poi ad affrontare le loro diagnosi senza paura e questa è una cosa molto bella. Io ancora adesso che sono nella fase di post post cura a volte mi devo forzare a ricordare quello che è stato, perché purtroppo la vita ti viene a riacchiappare con le piccole cose ma io da allora ho una centratura, una lucidità, che mi sono sempre augurata di non perdere mai ma poi un po’, piano piano un po’ si perde come un naufrago su una zattera per mesi poi torna in città e piano piano la città lo assorbe, ecco così con la mia l’esperienza da cui però sicuramente non potrò prescindere più.

Ormai è un anno intero che abbiamo passato più o meno chiusi nelle pareti di casa, in telelavoro, in smart working, che cos’è che ti auguri come prima cosa? La riapertura oppure i vaccini oppure che si torni a viaggiare?

Io mi auguro intanto che tutte le persone che hanno bisogno, possano essere curate. Poi sì, mi auguro che riaprano i cinema e i teatri che sono stati molto sacrificati.   Forse troppo, nel senso che possiamo andare al ristorante, mangiare, toglierci la mascherina, ma non possiamo andare a teatro dove comunque avevano inserito la regola di una poltrona sì e due no, quindi il metro c’era, eccome. Però il teatro e alcune altre realtà sono state molto molto sacrificate.

Quindi Sabrina, ci salutiamo parlando di gentilezza, di prossime avventure e di resilienza.

Ho scoperto una cosa, ho parlato con Maura Gancitano autrice del libro “Prendila con filosofia – manuale di fioritura personale” e lei dice la resistenza e la resilienza sono due cose diverse: la resilienza è passiva cioè l’albero che nonostante l’uragano sta sempre lì e lì rimane; la resistenza invece è attiva: qualche cosa arriva improvviso e l’albero non si sposta ma germoglia e fiorisce. Così allora mi son detta: io ho passato la vita dire che sono resiliente ma invece la verità è che sono resistente! Che è una cosa bellissima, la resistenza è una cosa viva, forte, bisogna allenarsi alla resistenza.

La voce le si stempera, gli occhi si illuminano, il viso di bambola ha oramai le guance arrossate. Ci salutiamo.