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lo sguardo rosa sulla società

Protagoniste: Francesca Manieri

Francesca Manieri in occasione della conferenza stampa di Anna, di Niccolò Ammaniti

Dal 23 aprile su Sky e Now arriva Anna, serie Sky Original prodotta da Wildside, diretta da Niccolò Ammaniti e tratta dal romanzo omonimo da lui scritto ed edito da Einaudi. Fiaba distopica per adulti su di un mondo distrutto da una pandemia, “la rossa” e il viaggio fisico e dell’anima di una ragazzina in missione per salvare se stessa, il fratellino e il loro futuro. A scrivere la sceneggiatura con Ammaniti, Francesca Manieri, penna ormai riconoscibilissima dietro grandissimi successi del cinema e della serialità italiana.

Per nominare solo alcuni dei progetti a cui ha preso parte: Il primo Re di Matteo Rovere, Il Miracolo di Niccolò Ammaniti, We Are Who We Are di Luca Guadagnino ed ancora la saga di Smetto quando voglio o film essenziali come Vergine Giurata e Figlia Mia di Laura Bispuri, eccellenze ed orgoglio italiano ai film festival internazionali. Cogliamo la ghiotta occasione di Anna su Sky per raggiungere Francesca Manieri e provare a farci raccontare tutto sulla sua arte creativa e sulla sua capacità di spaziare tra generi e forme narrative all’interno del mondo audiovisivo. Con l’autrice poi, ci allontaniamo dai suoi progetti per tentare di scardinare ancora una volta stereotipi e pregiudizi sul femminile nella narrazione. 

Non è la prima volta che collabori con Ammaniti, già avevate collaborato in Il Miracolo, come descriveresti Anna, che cosa vedremo e che esperienza è stata per te?

È un racconto di formazione, vedremo una distopia, un mondo colpito da una pandemia dove sopravvivono solo i bambini ma sopravvivono fino all’età adulta.  Un mondo di soli ragazzini dove la legge del più forte riprende il sopravvento. In questo regno di natura c’è una bambina che resta legata a qualcosa del prima attraverso un lascito di sua madre che è questo libro-quaderno “Il Libro delle cose importanti”  e lei si ritrova ad essere l’unica ad occuparsi del suo fratellino Astor che le viene rapito all’inizio della serie e quindi quello che vedremo è il viaggio mirabolante di Anna per cercare di ritrovare e salvare suo fratello, il suo futuro. Con Niccolò avevamo lavorato insieme a Il miracolo che è stata un’avventura lunga e complessa ma che ci ha portato a visualizzare le nostre differenze in termini di visione del mondo ma anche la nostra sintonia assoluta sulle modalità di racconto. Anna è stato un viaggio diverso perché partivamo da un romanzo molto strutturato e io di mio non amo mai e quando posso rifiuto di lavorare con autori di libri al loro adattamento in chiave cinematografica o seriale perché lì si pone sempre una grande problematica.  Sono linguaggi diversi e tendenzialmente chi ha già fatto un lavoro lungo e solitario per arrivare ad una compiutezza testuale difficilmente abbandona delle stazioni drammaturgiche a cui era affezionato.  Secondo me però, a volte invece c’è necessità di trasformare proprio per arrivare a un altro linguaggio che sia più consono al mezzo che si andrà a utilizzare perché i mezzi agiscono secondo me sia sulla forma del racconto che sul contenuto del medesimo. È stato possibile su Anna perché Niccolò da subito ha dichiarato di non voler adattare Anna ma di volerlo espandere in una certa misura e di volerlo riattraversare in una forma diversa e questo ci ha molto più liberi e quindi abbiamo trattato Anna come, e lo dico in maniera non lesiva del valore del romanzo, un canovaccio, in cui c’erano dei personaggi, delle traiettorie inevase e altre da far esplodere. È quindi stato un lavoro di immaginazione a partire da un testo che di per sé è già profondamente immaginifico.

Anna (image courtesy: Sky)

Ad Ammaniti hanno chiesto se, nonostante la serie sia stata girata pre-pandemia e il libro scritto 5 anni prima, l’avvento del COVID vi abbia in qualche modo condizionato nella resa finale della serie. Vorrei sentire la tua risposta.

Da un punto di vista cronologico non ci ha condizionato perché noi abbiamo finito il lungo lavoro di scrittura molto prima dell’avvento del Covid e Niccolò è andato in preparazione e la serie è stata girata molte settimana prima del Covid quando poi c’è stato uno stop interno. È chiaro che quando c’è stato quello stop sono successe varie cose, la prima è stata la riflessione su questo cortocircuito che si produceva tra la serie e la realtà e Chiara che chiaramente ci ha interrogati profondamente nel senso che tipo di di attinenza che cosa penserà il pubblico cosa c’è cosa non c’è e chiaro che Nicolò si è sempre ho sempre risposto in maniera ferma a questo da scrittore e dal creatore della serie ancor più che da regista cioè da persona che conosce bene la narrazione lui ha risposto: quella per me è una premessa drammaturgica. E chiaro che lui si era molto documentato sulle pandemie prima di scrivere Anna. Io mi ricordo perfettamente che è un giorno eravamo a casa mia con Paolo Giordani perché stavamo ancora credo lavorando a we are who we are di Luca guadagnino ed erano proprio i primi bagliori delle notizie della cena e mi ricordo che visto che io e Paolo siamo più catastrofisti ci dicemmo che c’era qualcosa di enorme in quello che stava accadendo e che non stavamo veramente visualizzando e Paolo che è un altro che aveva lavorato su sulle epidemie ebbe questa forte diciamo consapevolezza se non premonizione. Come poi siamo noi stati a contatto nel periodo in cui c’è stato lo stop forzoso delle riprese con quella roba lì riguarda il lavoro di montaggio che io ho avuto modo di vedere con Nicolò è una riflessione su una forma di semplificazione di quello che delle riprese che si dovevano fare e quindi ha impattato da un punto di vista materiale su come potevamo tornare a girare dopo lo stop con la paura di non riuscire a fare una serie di cose però dal punto di vista narrativo ormai come dire “i buoi erano scappati dalla stalla“Perché lui veramente aveva già girato tutta la parte che attiene soprattutto le prime due puntate alla premessa della storia che riguardavano la malattia la rossa.

Nel vedere i primi due episodi di Anna, ho pensato che forse l’angoscia che mi ha colto guardandoli non sarebbe stata la stessa se non avessimo vissuto e stessimo vivendo questa pandemia di Covid 19. Che pensi? Siamo cambiati?

Io penso che tutto è interpretazione del reale e in questo mi sento più affine al pragmatismo americano come linea di pensiero secondo il quale il pregiudizio condiziona la nostra conoscenza sia intellettiva che emotiva. È impossibile  rispondere a questa domanda negativamente dal mio punto di vista perché è evidente che il mood in cui siamo investiti ora e di cui ci siamo imbevuti da un anno a questa parte condiziona la visione di quel progetto lì ma è sempre così, è imprescindibile, è il pregiudizio che forma la visione e il pregiudizio in cui siamo adesso è quello di una macro narrazione condizionata dall’evento pandemico . Poi, non possiamo sapere cosa sarebbe stato qualora non ci fosse stato il Covid e sicuramente la serie ha elementi in sé come la violenza dei bambini, la fame dei bambini, la morte dei corpi giovani, inquietanti e perturbanti di per loro però credo che l’inquietudine e l’angoscia di cui tu parli che ti prende sulle prime due puntate abbia invece a che fare con una percezione dell’esistente quindi con quella rappresentazione in chiave però non giornalistica ma narrativa. Ora io credo e spero che come sempre il percorso narrativo comporti un’attitudine catartica invece che un’attitudine depressiva che è quella che invece un certo tipo di giornalismo, dominante da un ventennio ormai, porta con sé.

Leggendo alcune tue vecchie interviste, ho letto una tua dichiarazione fatta in occasione dell’uscita di Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini con cui hai condiviso la scrittura. Dicevi che, in scrittura,  per i tuoi personaggi, tornavi comunque sempre alla fase dell’infanzia e che i problemi dei tuoi personaggi andavano ricercati lì. Ricordi questa affermazione? ce la illustri meglio?

La ferita del personaggio di cui parlano tanto gli americani per me non ha che fare tanto uno studio sistemico di incastri con nodi o turning point ma piuttosto ha a che fare con qualcosa che si produce nell’infanzia, con quella ferita che il mondo produce quando tu sei aperto all’esistente e da quel primo contatto che è sempre feroce, il primo attrito tra il sé e il mondo che poi origina il nucleo fondante di ognuno di noi e quindi anche dei nostri personaggi. Penso intendessi questa cosa qui, non è che quando scrivo i personaggi mi domando mai che bambini erano. Non è questa la procedura. Nel caso di Dove cadono le ombre, quei due personaggi adulti erano due bambini, piuttosto semmai faccio questo esercizio paradossale di trattare anche gli adulti come fossero quei bambini, con quella ferita lì,ma non lavoro sulla biografia dei personaggi perché la troverei costrittiva.

Anna (image courtesy: Sky)

Approfondiamo il tuo lavoro di sceneggiatrice: hai spesso lavorato in coppia o in squadra e la sensazione è che scegli i progetti in base all’idea di poter fare qualcosa di nuovo, inesplorato, se non altro per il panorama del nostro cinema.  È questa la spinta per farti partecipare ad un progetto?

Questo è un privilegio che ho acquisito nel tempo. All’inizio questo privilegio non c’è e quindi tu provi a stare dentro un progetto spostandolo o avvicinandolo a qualcosa che credi sia interessante da dire in quel momento. In questa fase che ho acquisito temporaneamente, sì, mi piace pensare di scegliere i progetti in base alle premesse che contengono o anche a degli incontri che portano con sé. È chiaro che quando hai la possibilità di lavorare con colleghi, autori, registi che ti insegnano delle cose, quella roba lì vale tutto a prescindere a volte dal progetto. Sono una che per alcuni progetti dice sempre “questa storia non è nelle mie corde” e questo a volte lo dico perché penso di fare un servizio anche a me dicendo che non sono capace. 

Non riesco ad immaginare qualcosa che non sia nelle tue corde, vista la varietà di progetti a cui hai preso parte, dall’epopea comedy di Smetto quando voglio al film sportivo come Veloce come il vento, ai film che esplorano identità sessuale, maternità e molte fasi importanti dell’esperienza umana come Vergine Giurata o Figlia mia. Come riesci a scrivere di tante cose così diverse? Non puoi sempre attingere da esperienze vicine a te visto che la tua filmografia è troppo varia e vasta.

La verità è che io sono cresciuta in un paese vicino Roma e i miei nonni possedevano un cinema e questo cinema stava proprio sotto casa mia, cioè il terrazzo di casa mia era il tetto di questo cinema e quindi io che ero una persona diciamo sociopatica, avevo modo di passare attraverso un piccolo vicolo attiguo al portone di casa mia, lungo il quale c’era la cabina di proiezione a cui io avevo accesso (e da dove proiettavamo anche io, mio fratello e mia zia)  e una porta che portava in platea. Mia nonna mi diede la chiave per cui io entravo da lì e potevo non vedere nessuno e mi ricordo distintamente l’ingresso attraverso queste tende di velluto blu polveroso e io facevo in modo di arrivare quando già erano già spente le luci. Era un cinema di provincia e quindi passava qualunque cosa da Il ragazzo dal kimono d’oro, Karate Kid, Rocky, Rambo a La sottile linea rossa e io ricordo come il giorno più bello della mia vita quello in cui hanno proiettato Lezioni di piano perché ero da sola in sala, chiaramente, chi vuoi che ci venisse a vederlo?. Mia nonna pensa che faceva questa cosa becera per cui non iniziava un film se non vedeva persone in sala e quindi gli orari erano un po’ plastici. Io aspettai, mi ricordo le luci accese in sala e mi arrabbiai con mia nonna così lei finalmente partì con questo film che fu per me l’esperienza più potente della mia vita. Tornando quindi al mio lavoro, nel misurarmi con tutta quella varietà di cose lì, ci sta tanto di questa mia formazione scomposta, onnivora di quel cinema, l’aver visto tutto. A me tutto sommato mi vengono difficili tante cose che mi piacerebbe saper fare però mi viene abbastanza facile la struttura filmica perché è una struttura che conosco da quando avevo due anni, mia madre mi portava a dormire lì, portava il passeggino in sala e io e mio fratello ci addormentavamo così, tutta la mia famiglia è cresciuta così, è un fatto proprio educativo. C’era tanta commedia chiaramente, c’era tutto, io sono una seria ma anche una grande cazzona e mi piace, almeno una volta l’anno, poter scrivere una commedia.

Anna (image courtesy: Sky)

Questo tuo poter scrivere di tutto, mi aiuta a provare a sfatare anche uno stereotipo che ancora molte donne devono combattere: l’idea che esista una scrittura al femminile, che ci sia una diversa sensibilità delle donne rispetto a certi temi. Che ne pensi?

Premesso che parli con una persona che non è mai stata nel binarismo di genere e che non risponde a questa dicotomia maschile-femminile perché credo che questo sia un forte assetto culturale che definisce i generi come M e S, categorie e caselle  e per me è una roba aberrante, frutto di un prodotto culturale coercitivo e costrittivo. Fatta questa premessa, credo tuttavia che non ci siano delle tematiche femminili e maschili penso però che chiaramente il vissuto influenza sul punto di vista. Prendiamo per esempio quel capolavoro assoluto che è Cime Tempestose o prendiamo quell’altro capolavoro assoluto che è Frankenstein. Ti parlo di due testi che se venissero codificati con la codificazione che tu mi riproponi essere stata più volte messa in campo, verrebbero definiti testi maschili perché sono entrambi testi muscolari con mostruosità, fantasmi invece sono due degli architravi della letteratura femminile. Allora il punto è che chiaramente se un soggetto socialmente costruito come soggetto donna vive per millenni una condizione è chiaro ed evidente che quando quel soggetto porta in essere la sua poetica dice cose diverse, grazie a Dio, dal soggetto dominante ma ciò non vuol dire che quel soggetto è relegato a cucito, maternità, i sentimenti, non vuol dire per niente questo, ma quel soggetto ha il potere di raccontare l’universale ivi compreso anche le bombe di Kathryn Bigelow che come mi dicevi è considerata spesso una regista che fa “film da uomini”.

Io poi sono fortunata perché essendo io Non binary, definizione che mi fa orrore ma che viene riconosciuta, al di fuori i colleghi non mi riconoscono come la donna e non mi sento dire quella cosa orrenda che si sentono dire bravissime colleghe: serve uno sguardo femminile. Perché se gli serve uno sguardo femminile non chiamano me. Detto ciò, bisogna rifuggire da questa cosa perché il punto è che seppur sia ovvio che per esempio io, quando lavoro sull’identità mi sento a mio agio perché il mio portato esistenziale mi rende affine a certe argomentazioni, quello che va rivendicato è il racconto dell’universale a partire da un punto di vista che per millenni è stato considerato “meno”. Cioè, le donne devono raccontare di uomini, devono raccontare la guerra, tutto quello che vogliono raccontare e non bisogna più pensare che la narrazione femminile ha un orizzonte di eventi mentre la narrazione maschile ha invece l’intero scibile degli eventi. 

L’altro rischio di questo è il neutro. Io capisco quelle che dicono: io non ho il punto di vista di un mio collega uomo. Tutto ciò è vero così come è vero che un nero non ha lo stesso punto di vista di un bianco ma non è che un black per questo può raccontare solo i neri. È tutto lì il punto.