Racconti Pink – MARCO (Maria Concetta)
Era rimasto da solo in studio. Fuori, il cielo di cobalto con i suoi riflessi grigi preannunciava un tramonto sfolgorante.
Chiuse tutte le porte dello studio, per rinnovare senza essere disturbato il rituale, che aveva deciso di rinnovare, in anticipo rispetto al ritmo normale dei suoi desideri.
Si sentiva quasi come quei killers seriali che affollavano i gialli: l’intervallo tra un’azione e l’altra, sempre più breve.
Il suo delitto, se così si poteva chiamare, non faceva del male a nessuno, però.
Chiuse la porta della stanza che si era riservato, in fondo al corridoio. Luminosa, ampia, tutta bianca, un po’ fredda forse.
Aveva montato lui stesso una specchiera del tipo diva, con le luci bianche opalescenti, adatte al trucco.
Un ampio ripiano di appoggio, una ribaltina a scomparsa. Unica nota di colore, la poltroncina rossa di pelle.
Prima, però, doveva abbassare le tende a rullo, bianche, per chiudersi nel suo mondo.
Abbassò le luci, lasciando accese solo quelle sullo specchio. Il riflesso rimandava all’infinito la sua immagine nello specchio dell’armadio ad ante scorrevoli, che aveva sistemato davanti alla toeletta. Lì teneva i vestiti.
Sua moglie trovava il tutto vagamente kitsch, sembra un boudoir di un metrosexual un po’ gay, gli aveva detto. Ma dopo l’iniziale stupore, aveva preferito evitare di tornare. Stava alla larga, nascondendosi dietro al sorriso materno, esteso anche a lui, per amore delle figlie. O forse chissà.
Era teso, la muscolatura del busto contratta. Gli succedeva sempre e si chiedeva come mai. Dopo tanti anni.
Si tolse il maglione, i pantaloni, le scarpe. Via i calzini e i boxer, si avvolse i fianchi con un telo di seta rossa.
Nel cassetto centrale trovò tutto il necessario: si sistemò una fascia intorno alla testa, scostò i capelli brizzolati che ancora gli incorniciavano il viso e con un batuffolo di ovatta si rinfrescò il viso con l’acqua di rose. La barba l’aveva fatta quella mattina, ma la pelle era ancora liscia.
Con un gesto lento accarezzò il volto di crema, concentrandosi sul contorno occhi, sul collo che iniziava a tradire i segni degli anni.
Preferiva truccare prima gli occhi: ombretto chiaro per uniformare la palpebra, eyeliner sfumato con l’ombretto grigio, una sfumatura sulla curva sopra l’occhio.
Il mascara non era bravo a metterlo. Gli piaceva guardare sua moglie quando lo applicava in quel silenzio senza pensieri, la bocca leggermente socchiusa. Ma aveva optato per le ciglia finte, folte e nere, che ingrandivano l’azzurro dello sguardo.
Poi passò al correttore: l’interno degli occhi, un po’ intorno alla bocca sulle due pieghe amare che lo facevano sentire triste.
Il fondo tinta, cremoso opaco. Cipria in polvere, via l’eccesso. Uno spray per fissare. Chiuse gli occhi, li riaprì, era perfetta. Viola, oggi si sentiva così.
Mora, un bel caschetto liscio. La frangia non era di moda, ma si piaceva così. Infilò la parrucca che teneva nascosta nello stipetto della toeletta.
Stasera Viola si sentiva particolarmente troia. Troia bon ton, da tubino nero e filo di perle.
Gli orecchini di perle li aveva presi dal portagioielli della moglie, un regalo di sua madre, erano degli anni ’60 ancora con le clips. Stringevano i lobi: doveva fare tutto in fretta se no gli lasciavano i segni.
Una volta se l’era vista brutta, mentre riponeva gli orecchini nella scatola di velluto in camera da letto, era entrata la moglie e gli aveva chiesto perché apri lì, son cose di donne…
Era riuscito a sviarla, buttandola sul letto stretta in un abbraccio, sei bellissima le disse mordendole il collo con forza.
Lei aveva riso sistemandosi i capelli, ma no dai, ora no. Ed era tornata in cucina a preparare la cena.
Doveva muoversi.
Si infilò le autoreggenti nere, tirando bene il pizzo sulle gambe snelle e muscolose, le chanel di pitone nero le davano uno slancio sensuale.
Si guardò allo specchio. Il risultato era grandioso: Marco non c’era più.
C’era Viola, misteriosa, sexy, chic.
Decise di uscire, di affrontare la folla che si accalcava sul corso. Era la sua prima volta.
Scese le scale a piedi per provare a camminare sui tacchi, si disse. Temeva – invece – di incontrare qualcuno, la signora del terzo, che rientrava dal lavoro a quell’ora o Antonio, quel bell’uomo che abita al pianoterra.
Aveva paura perché gli occhi non ingannano e i suoi erano particolari, azzurro color del ghiaccio, grandi, quasi sbarrati a guardare il mondo, soprattutto quando a guardare era Viola.
Fu fortunata e riuscì a raggiungere il centro, attraversando le mura della città, senza incontrare nessuno.
Si accorse che stava camminando in fretta e che la sua andatura manteneva un che di mascolino.
Fece un sospiro e lasciò che Viola prendesse il sopravvento.
A Viola piaceva passeggiare lentamente, il corpo sinuoso che seguiva il passo ritmato, un tocco lieve sul selciato.
Le sarebbe piaciuto andare in un bel locale a prendere l’aperitivo e sorseggiare lo spumante, lo sguardo morbido, qualche sorriso.
Ma preferì continuare a camminare, guardandosi attorno di sottecchi.
Non desiderava la compagnia di un uomo. Solo gli piaceva essere donna, di tanto in tanto. Voleva il desiderio, il desiderio nello sguardo dell’altro.
Immaginario finché rimaneva chiusa in studio, finalmente reale quella sera con le occhiate curiose, vogliose, stupite.
Era il mistero del desiderio che solo una donna, una femmina può suscitare, potente e intrigante. Il maschio manca di mistero.
Viola si accorse che piaceva e, appena intercettava un lampo di desiderio, abbassava lo sguardo, con un sorriso appena accennato. Ma ne sentiva la scia, come un profumo che si allontana.
Dopo un po’, però, iniziò ad avere paura delle sensazioni che leggeva nei corpi degli uomini.
Un bel ragazzo moro le si affiancò davanti ad un negozio, dove si era attardata per calmarsi. Lo guardò per un attimo, si sentì paralizzare dal terrore quando riconobbe Giovanni, un compagno di scuola della figlia.
Si chinò come per sistemarsi una scarpa scappata dal piede, la borsa si sfilò dalla spalla e cadde per terra. La raccolse velocemente e con uno scatto si allontanò, nervosa, mentre il ragazzo la seguiva con lo sguardo divertito.
Forse gli faccio pena, forse sembro una vecchia checca o una signora sfiorita, forse non sono così bella come credo…lo specchio mi ha ingannata e il desiderio è solo in me.
Precipitosamente tornò in studio, approfittando del buio per nascondersi, urtando la borsa contro i muri.
Arrivata davanti al portone, trovò le chiavi con movimenti concitati e bruschi.
Era solo Marco, ormai, in preda al panico.
Non era andata bene, questa prima uscita di Viola: il sogno era svanito, il giocattolo rotto.
Si spogliò con furia, tolse le autoreggenti con stizza, via gli slip e il reggiseno imbottito.
Si sedette tutto nudo per struccarsi: passò l’ovatta imbevuta di latte detergente più volte per togliere il fondotinta, poi lo struccante per gli occhi, solo sul lato sinistro del viso, quello del cuore.
Nello specchio apparve la sua duplice bugia. Né uomo né donna.
Si fece una foto con il cellulare. Con un click la mandò alla moglie.
Poi struccò anche la faccia destra e pianse.
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“Tuo marito si veste da donna?”
“qualche volta… che ti importa?”
“Ragazze! Datevi una calmata!” intervenne Annalisa “siete proprio retrograde e… ingiuste…”, guardando allusiva Elisabetta, che sospirò: “Mia figlia è omosessuale”.
“Evvabbè! cheffà!? Se si amano…”
“È single, non se la prende nessuno!”
“Allora non serve nemmeno cambiare sponda per rimediare!”
“Fate proprio schifo…” disse Annalisa, e questa volta era sincera.
“Forza Elisabetta, cos’hai scritto? Mica ci hai propinato la storia di tua figlia?” Claudia iniziò a leggere.
Sono una donna allegra, precisa e affidabile.
Ho tre grandi passioni: la prima è senza dubbio scrivere. Scrivere mi fa stare bene.
La seconda è la cucina: amo sperimentare e amo il profumo dei biscotti appena sfornati.
Ultimo ma non ultimo: sono appassionata di viaggi.