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Essere infermiera ai tempi del Covid-19

Intervista ad ELEONORA Infermiera

In questi lunghi mesi di sconvolgimento totale per la pandemia Covid-19 abbiamo imparato ad apprezzare sempre di più il lavoro, o meglio la dedizione, di alcune figure professionali che sin dal primo momento sono passate in primo piano per la dedizione e l’abnegazione nello svolgere il loro impegno: gli infermieri. E noi oggi incontriamo Eleonora, madre di tre figli, infermiera del 118 di Toscana Centro.

Eleonora perché hai scelto di fare questo lavoro? Cosa ti ha spinto a questo quotidiano impegno verso gli altri?

Perché ho scelto di fare questo lavoro? Le motivazioni sono tante. La prima che sembra la più divertente: perché da bambina guardavo Candy Candy, un cartone animato ormai passato alla storia di cui io ero innamorata, l’ha visto non so quante volte, anche in francese perché veramente mi piaceva, mi incuriosiva questa bambina che pur avendo avuto un’infanzia difficile era pronta a dare tutto il suo aiuto per il prossimo. Diciamo che la mia vita è stata un po’ sempre così, sono stata nel mondo del volontariato per tanto tempo grazie agli scout che ho frequentato, da bambina e poi da ragazza e ho conosciuto tanti istituti dove c’era bisogno della presenza di qualcuno che desse una mano e quindi io ho passato i miei giorni liberi dalla scuola, i sabati, le domeniche, i week end, tutti in queste associazioni dove c’era bisogno di dare una mano e si faceva un po’ di tutto. Sentivo e sento dentro di me il bisogno di poter dare nel mio piccolo una mano a chi ha più bisogno di me.

Più che un lavoro il tuo sembra una missione, da quanti anni fai l’infermiera?

Vediamo, mi sono diplomata che avevo 22 anni e ho sempre fatto l’infermiera: ho lavorato in rianimazione, in Pronto Soccorso e negli ultimi 21 anni sull’ambulanza come infermiera di 118. Inizialmente lavoravo sia in centrale operativa, cioè dove arrivano le chiamate e in contemporanea sull’ambulanza e negli ultimi sei anni invece lavoro esclusivamente sul territorio, quindi in ambulanza e in auto medica come infermiera, sulle auto infermieristiche dette anche “india” che sono appunto le ambulanze dove l’equipaggio è formato da un sanitario cioè l’infermiere e da volontari. Vorrei qui fare una distinzione: ogni regione ha protocolli e situazioni completamente diverse, cioè ogni regione ha un equipaggio composto da persone di diverso tipo, in alcune tutte dipendenti ASL, in altre invece, come ad esempio in Toscana, la situazione è un pochino più complicata perché l’emergenza sanitaria si è dell’azienda sanitaria e diciamo gestita dall’azienda ospedaliera, però le ambulanze non sono dell’Ospedale, vengono prese in appalto delle associazioni di volontariato, che qui in Toscana sono veramente tantissime; quindi l’azienda paga a queste associazioni un fermo macchina quindi un tot mensile e in più dà dei soldi per ogni servizio. C’è l’infermiere all’interno dell’ambulanza, per quanto riguarda le mansioni dell’infermeria si agisce per protocolli che una volta stilati dai superiori dei gruppi di lavoro poi vengono visionati naturalmente dal direttore del 118 che è un medico e dall’ok.

Quando si arriva su un target, su un servizio, la differenza tra medico e infermiere è minima, infatti non viene inviato il mezzo se c’è medico infermiere in base alla patologia, ma viene inviato il mezzo più vicino. Quando si tratta di un mezzo con sanitario a bordo non c’è distinzione tra medico infermiere, le uniche due cose che fanno la differenza sono sulla morte che può essere dichiarata esclusivamente da un medico quindi se su un arresto cardiorespiratorio arriva un infermiere che inizia le manovre rianimatorie, poi è obbligato a chiamare un medico perché nel momento in cui non si riesce a riprendere il paziente, il medico deve dichiarare il decesso. Altro evento in cui è necessario il medico riguarda il trattamento sanitario obbligatorio, che deve essere fatto da due medici e quindi c’è bisogno del medico dell’ambulanza del 118 e a volte si prende anche la disponibilità dello psichiatra dell’Ospedale. Inoltre  i medici in questa situazione hanno farmaci che noi non abbiamo, sedativi che non vengono dati agli infermieri: l’unico farmaco che può utilizzare l’infermiere per quanto riguarda la sedazione è la morfina, che viene utilizzata solitamente per alleviare il dolore e che quindi non viene usata nei pazienti psichiatrici. Quindi le patologie psichiatriche e l’accertamento di morte sono gli unici due eventi in cui viene inviato un medico, perché un infermiere non ha i mezzi per poter trattare questi due interventi; per quanto riguarda tutte le altre patologie gli infermieri del 118 della Toscana possono essere inviati indistintamente su qualunque evento. Come dicevo ogni regione si attiene a protocolli della centrale quindi sinceramente non so nelle altre regioni come funzioni anche se ultimamente stanno cercando di equiparare un pochino le linee guida. Però dipende anche molto dal medico di centrale, cioè se il direttore della centrale non avalla e quindi non mette la firma su determinati protocolli, gli infermieri non possono svolgere determinate mansioni, però per quanto riguarda appunto la Toscana quella differenza non c’è, abbiamo protocolli che ci danno la possibilità di utilizzare determinati farmaci salvavita. Con l’avvento del Numero Unico di Emergenza le chiamate cadono tutte sul 112 e poi vengono divise tra emergenza sanitaria, emergenza per quanto riguarda i vigili del fuoco, polizia, stradale ed altro. L’Italia purtroppo non è tutta uniforme e per quanto riguarda la Toscana abbiamo le stesse mansioni a livello medico per quanto riguarda l’emergenza sul territorio e ci atteniamo a protocolli per poter fare delle prestazioni sanitarie salvavita e somministrare quindi dei farmaci per poter tamponare determinate patologie per poi poter portare il paziente in Pronto Soccorso dove poi seguiranno la diagnosi e la cura.

Come è mutato il tuo lavoro da prima e durante l’emergenza Covid?

Il mio lavoro prima era così: arrivava una chiamata alla Centrale Operativa in cui l’utente chiedeva il soccorso, gli veniva chiesto l’indirizzo, quali problemi aveva il paziente dopodiché in base ai sintomi che riferiva si dava un codice di patologia e un codice colore in base alla gravità che si pensava potesse avere questa patologia, il servizio veniva caricato sul computer ed automaticamente veniva inviato all’ambulanza più vicina al target dell’evento. L’operatore del 118, dopo aver terminato la chiamata con l’utente chiamava l’associazione di volontariato dove c’era l’ambulanza che doveva partire, informava che era arrivato un servizio sul computer di bordo, quindi la squadra andava all’ambulanza, in base a ciò che c’era scritto sul computer di bordo decideva il tipo di intervento e partiva immediatamente per andare sul target. Il mio lavoro consisteva quindi nell’arrivare sul paziente, prendere i segni vitali, chiedere al paziente quali problemi avesse, trattare inizialmente per quanto era possibile il problema per poi portare il paziente presso il Pronto Soccorso più vicino per far fare una diagnosi e quindi di conseguenza una terapia adeguata.

Che cosa è cambiato? Se prima i tempi di intervento erano molto veloci, perché per raggiungere su un target prima veniva inviata sempre l’ambulanza più vicina  all’evento. Ora invece il servizio si allunga, perché non si parte immediatamente ma su qualunque tipo di servizio prima ci si veste con tutte le precauzioni, quindi tuta, doppi guanti, mascherina, anzi di solito due perché si mette sotto la fp2 sopra la chirurgica, occhiali, cappellino, visiera, copri-scarpe: insomma la vestizione ha i suoi tempi. Per quanto adesso siamo riusciti a velocizzare il tutto, inizialmente insomma si perdeva abbastanza tempo perché non erano cose che facevamo tutti i giorni ma soltanto in eventi particolari, quando ci dicevano che si andava magari su un paziente infetto da una patologia che poteva essere facilmente trasmissibile, ma quelli erano casi che capitavano molto raramente. Ora invece questa vestizione deve essere fatta ad ogni intervento, perché per noi ogni paziente, a prescindere da quello che dice appunto al 118 di avere, per noi può essere un paziente a rischio. Inoltre, si sono allungati i tempi per svolgere le proprie mansioni, bardati in quella maniera, con gli occhiali, la visiera, ti si appanna tutto, i movimenti sono più difficili, d’estate fa caldo e si suda, insomma riuscire a svolgere determinate prestazioni sul paziente non è facile. In più bisogna stare a contatto con i pazienti il minimo indispensabile, per quanto siamo tutti coperti, non possiamo avvicinarci più di tanto e abbiamo rigidi protocolli che prevedono che soltanto il sanitario o il responsabile del servizio si può avvicinare in primis al paziente, quindi ci ritroviamo innanzitutto a lavorare da soli perché le squadre sono state appunto dimezzate per evitare che ci fossero troppi contatti con i pazienti. Oltre a questo, abbiamo difficoltà a svolgere determinate mansioni ed alcune prestazioni ci sono state vietate, come ad esempio la ventilazione manuale appunto perché c’è il rischio di droplet (gocciolina, in medicina definisce uno dei possibili metodi di trasmissione di un agente infettivo ndr.). Quindi che cosa è cambiato? E’ cambiato che ci mettiamo più tempo per fare un servizio, è cambiato che molte cose non possiamo farle, è cambiato che abbiamo difficoltà ad approcciarci con i pazienti e che quindi cerchiamo di velocizzare l’intervento, di prendere il paziente e portarlo il prima possibile in Pronto Soccorso, è cambiato che su alcune prestazioni salvavita come l’arresto cardiorespiratorio, che una volta veniva trattato con il massaggio cardiaco e la ventilazione manuale, adesso la ventilazione è stata vietata e quindi si fa soltanto massaggio cardiaco e si va a procedere immediatamente con l’intubazione del paziente, che sono manovre un pochino più complicate che richiedono più tempo e che purtroppo mettono più a rischio anche il sanitario.

Inoltre adesso dopo ogni servizio c’è la disinfezione di tutta l’ambulanza e di tutti i presidi che sono stati utilizzati. Questo veniva fatto anche prima ma in maniera molto piu blanda, veniva pulito ciò che veniva utilizzato con un po’ di disinfettante e finiva lì. Ora c’è proprio la sanificazione dell’ambiente, nei sospetti Covid cioè nei pazienti con sintomi che si sospetta abbiano il Covid-19  o nei casi noti o accertati di infezione,  tempo che prolunga poi gli interventi successivi perché dopo aver disinfettato ogni materiale utilizzato e tutto ciò che si trova all’interno dell’ambulanza poi c’è la sanificazione di tutto l’ambiente con macchinari appositi, quindi i tempi di sanificazione tengono l’ambulanza ferma e questo vuol dire che quella ambulanza per quasi un’ora non può essere riutilizzata per un successivo intervento e questo implica dei grossi problemi a livello del territorio in quanto poi le ambulanze iniziano a scarseggiare, vuoi anche perché per arrivare al Pronto Soccorso spesso ci sono tempi di attesa per entrare molto più lunghi di prima, proprio perché tra un paziente l’altro non si può entrare insieme con due barelle, molti PS sono piccini e quindi si deve evitare l’assembramento di più persone quindi si rimane in ambulanza in attesa del proprio turno tutto questo implica difficoltà nella gestione del paziente soprattutto per alcune patologie quali problemi respiratori, che sono uno dei sintomi più importanti del Covid-19 e stress da parte del personale perché insomma rimanere vestiti tanto tempo non è facile, con conseguente difficoltà alla respirazione anche per noi a causa del permanere tutti bardati in un ambiente ristretto come l’ambulanza. Quindi diciamo che il tutto porta delle complicanze spesso difficili da gestire, anche a livello psicologico, almeno per quanto mi riguarda mi crea dei grossi problemi perché mi rendo conto che non riesco a dare il 100% di me stessa ai pazienti, cosa che prima invece veniva fatto con semplicità: il nostro compito è quello proprio di dare il massimo per aiutarli, alleviare il loro dolore e cercare di farli star bene, adesso è molto più difficile, vuoi per le situazioni in cui lavoriamo, vuoi per la tempistica, vuoi perché diventa tutto più complicato soprattutto dovuto alla presenza delle bardature che danno grossi problemi nei movimenti nella gestione del paziente.

E in questa situazione così difficile, come riesci a gestire i rapporti familiari, soprattutto con i figli?

Prima, quando tornavo dal lavoro, i miei figli mi venivano incontro con baci e abbracci perché non mi avevano visto per 12, 13 ore.  Adesso  è  tutto diverso: vorrei e dovrei cambiarmi e farmi la doccia nel posto di lavoro, ma non tutti gli ambienti sono organizzati a fare in modo che ciò accada, quindi torno a casa, tolgo le scarpe sul pianerottolo e le metto in un sacco nero, entro in casa e vado direttamente in bagno, mi spoglio, mi infilo in doccia e dopo che mi sono lavata e cambiata, solo allora a quel punto saluto i miei figli. Metto tutto in lavatrice con disinfettante e finisce lì la storia. Però diciamo che il contatto con i ragazzi è sempre un pochino distaccato, cioè le effusioni che c’erano fino a qualche mese fa sono diminuite, proprio perché ho paura di essere io fonte di contagio per loro e quindi anche nei contatti con i propri familiari è tutto più difficile oltre al fatto che è capitato più di una volta che ho avuto dei sintomi e pensavo insomma che potevano essere riconducibili al Covid. Quindi mi sono autoisolata in casa in attesa del tampone, proprio per evitare problemi con i ragazzi. Per mia fortuna fino ad oggi tutti i miei tamponi sono i risultati negativi, però purtroppo ho colleghi che si sono infettati e che hanno contagiato i loro familiari o colleghi, che si sono allontanati dal proprio domicilio -chi ha potuto farlo, proprio per evitare di avere contatto con la moglie, con il marito, con i figli, perché possiamo essere degli untori, quindi per evitare questo chi ha potuto si è allontanato. L’azienda ci ha dato l’opportunità di andare negli alberghi però non tutti abbiamo potuto farlo. Io sono rimasta a casa perché non ho nessun altro, ma questa paura, questa angoscia me la porto dietro tutti i giorni.

Ultimo punto importante: se in passato andavo al lavoro entusiasta di andarci, oggi parto da casa con la paura, cosa che non avevo mai provato nei miei anni di lavoro come infermiera. Ora ho sinceramente paura di andare al lavoro, paura comprensibile visto il mostro con cui stiamo lottando e che ci lascia un senso di amarezza in base alla difficoltà di essere libera di fare e di comportarti nella maniera più adeguata e che a livello psicologico lascia segni: ho tanti colleghi che stanno andando al burn-out o colleghi che hanno difficoltà a venire al lavoro, sono aumentate le malattie, insomma ci sono tanti fattori che stanno influendo in maniera negativa a livello psicologico su di noi.

Da quello che ci dici è chiaro che si instaura una forte empatia con i tuoi pazienti, ma adesso quanto è pesante relazionarsi con loro soprattutto quando si trovano nei momenti drammatici?

È difficile riuscire ad essere empatici quando praticamente di te si vedono solo ed esclusivamente gli occhi e tutto il resto è coperto, è difficile far capire quanto in quel momento ci dispiace per quella situazione, quanto vorremmo cercare di fare di più. Quando non si vede l’espressione del volto di una persona e a malapena si vedono gli occhi, non è facile la comunicazione che oltre ad essere verbale è anche non verbale; con il corpo in questo momento non riusciamo a comunicare, non riusciamo ad essere empatici e quindi bisogna fare uno sforzo maggiore con le parole per cercare di far capire la nostra vicinanza, il nostro interesse, per cercare di risolvere i loro problemi quando si trovano in momenti drammatici -e praticamente per il paziente è sempre un momento drammatico perché nel momento in cui chiamano il 118 in teoria è l’ultima spiaggia per loro, quindi anche se magari vista con i nostri occhi potrebbe essere un problema un pochino più leggero di altri, per loro in quel momento pauroso in più adesso si aggiunge il fatto che arrivano tutti questi extraterrestri vestiti in modo anomalo…. e inoltre hanno anche la difficoltà poi a rapportarsi con il vicinato, perché soprattutto all’inizio la gente ci guardava in maniera strana e la prima cosa che diceva era “ma noi non siamo infetti,  noi non siamo malati” e far capire all’utente che non è per paura di loro ma che noi ci vestiamo perché dobbiamo tutelare noi stessi mentre tuteliamo anche loro, perché poi magari anche noi possiamo essere infetti in quel momento non lo sappiamo perché magari io posso aver preso il Covid ieri su qualche paziente e adesso lo sto covando dentro di me ma  sono asintomatica e però magari lo porto in giro ad altri… è una doppia tutela per noi stessi ma anche per loro.

Ti sei mai trovata in una situazione veramente impossibile da gestire?

Impossibile direi di no, perché l’unica situazione impossibile è la morte, quindi di fronte a quella non ci può essere niente da fare; ma per il resto si cerca di fare il massimo, poi ad un certo punto devi fermarti. Invece di situazioni difficili purtroppo ce ne sono tante, dalle violenze tanto da dover portare via magari un bambino a una mamma perché magari c’è il babbo che ha usato violenza verso di loro. Ma adesso ci sono situazioni anche difficili da far capire, ad esempio ora quando si prende un paziente viene il paziente e basta, la famiglia rimane a casa e non può venire nessuno in Ospedale e non è facile per un genitore vedere un figlio di 18-19 anni andare in Pronto Soccorso e non poter andare con lui. I minori sì, sono gli unici che possono avere un accompagnatore, ma tutti gli altri già da 18 anni e un giorno non possono avere accompagnatori perché è vietato l’accesso in Ospedale. Quindi già vedi il terrore negli occhi del paziente che sta male, in più vedi l’angoscia, il terrore e la paura nei suoi parenti perché si sentono impotenti in quel momento, perché non possono dare il loro supporto ai loro cari. Quindi in questo momento diciamo la situazione più difficile da risolvere per noi sanitari è proprio questa: far capire alle persone che purtroppo devono venire da sole e fare un decorso ospedaliero da sole perché non possono ricevere visite e quindi si ritrovano soli con sé stessi con questa brutta malattia – e questo accade anche per chi non ce l’ha questa malattia, ma viene un Ospedale per altri motivi. In questo momento un Ospedale è proprio off-limits, poi in base al reparto dove vengono ricoverati, ci sono reparti che magari riescono a far entrare parenti per qualche minuto, ma in altri purtroppo tassativamente no.  

E adesso parliamo di politiche sanitarie. Cosa pensi del sistema sanitario, di come si sono mosse le Istituzioni in merito all’emergenza Covid?

Da quando la Sanità è gestita dalle Regioni per il nostro settore ci sono molte differenze tra le diverse regioni.  Purtroppo il Sud è messo veramente in una situazione molto molto più difficile, al nord diciamo che stanno un pochino meglio almeno per quanto riguarda le risorse economiche. Per quanto riguarda la sanità in generale secondo me è stata distrutta negli anni -purtroppo non credo sia soltanto un mio pensiero: negli anni sono stati diminuiti i posti letto, sono stati chiusi Ospedali, non sono state assunte persone. Io per tanti e tanti anni ho dovuto cambiare regione proprio per questo motivo: sono stata per 10 anni a Roma a lavorare con un contratto a tempo determinato di un anno, ogni volta scadeva, stavo ferma un tot di tempo, poi mi richiamavano, ricominciavo a lavorare. In quel periodo oltretutto io ero solo una bambina, quindi avevo bisogno di avere un posto fisso. Il primo concorso lo vinsi dopo mi sembra dieci anni che non usciva un concorso a livello nazionale: lo feci, fui fortunata, lo vinsi però purtroppo sono stata costretta a cambiare città e quindi mi sono ritrovata in Toscana. E questo poi è stato uno dei pochi concorsi negli anni passati, ora sono 20 anni che sto qui, anzi di più di venti sono 21 anni quasi 22. In 22 anni di concorsi ne sono stati fatti veramente pochi e quindi la sanità ne ha risentito, tanto che ci sono reparti in cui si trovano al massimo due infermieri a gestire decine e decine di pazienti e lo stesso è per quanto riguarda il sistema di ambulanze. Qui in Toscana posso dire che la situazione in confronto a Roma è un pochino migliore, almeno per quanto riguarda le ambulanze: ce ne sono veramente tante. Un esempio banale: qui ancora esistono i trasporti per persone che hanno bisogno di essere accompagnate in Ospedale per fare delle visite, per fare la chemioterapia, per fare la dialisi e basta una richiesta del medico, viene l’ambulanza in maniera gratuita a prendere il paziente a casa – cosa che a Roma un discorso del genere non esiste. Purtroppo l’ho scoperto proprio sulla mia pelle quando ne avevo bisogno per mia madre e mi è stato risposto a Roma che un servizio del genere non esiste! Qui in Toscana invece diciamo ancora c’è questa “isola felice”, chiamiamola così, in cui ci sono forse ancora i fondi. Però non è giusto perché l’Italia una è, dovrebbe essere uguale per tutte le regioni, per tutte le città, per tutti i paesi che ne fanno parte. Penso che come ho detto negli anni è stato tolto molto, a livello della Sanità: ci sono ospedali che sono stati chiusi, anche qui in Toscana ad esempio, a Prato, è stato chiuso un grande Ospedale e ne hanno costruito uno nuovo che ha la metà di posti letto, quindi chi ne ha subito le conseguenze sono i pazienti, perché vengono trattati e rimandati a casa in poche ore, in pochi giorni, prima ricoveri erano un pochino più lunghi. Quindi ci ritroviamo a trattare persone in casa che tornano dopo un intervento chirurgico, dopo una malattia importante, tornano a casa ancora non stabili completamente e sono costretti dopo poche ore che stanno a casa a richiamare l’ambulanza per tornare in Ospedale. Il personale è poco, i soldi sono pochi, le strutture sono poche, i materiali sono pochi: si è visto, all’inizio della pandemia mancavano i materiali e il tutto è stato gestito in maniera sbagliata, perché poi sono stati fatti acquisti errati….

Come già ho detto in precedenza, inizialmente noi ci vestivamo coi sacchetti di plastica per poterci proteggere dal virus nei confronti delle persone che erano infette; ora va un pochino meglio, so che anche in altre città la situazione è più semplice però siamo andati a tappare dei buchi delle carenze veramente enormi. A Prato stanno ancora costruendo, se non sbaglio il 9 gennaio verrà inaugurato una nuova struttura per pazienti meno a rischio, che vengono e  non hanno bisogno di essere ospedalizzati però non possono neanche andare a casa, perché magari hanno bisogno di un’assistenza minima, di ossigeno, e quindi è stata fatta questa struttura con svariati posti letto in cui verranno messe queste persone che non possono stare a casa perché hanno bisogno di assistenza, ma non hanno neanche bisogno di una rianimazione o di un reparto in cui l’assistenza deve essere maggiore. E così è stato fatto in tante città d’Italia, però sono tutte toppe che sono state messe dopo, proprio per il problema che ha mostrato le falle. Basta vedere ciò che è accaduto nella prima ondata. Forse tante morti potevano essere evitate, tanti ricoveri potevano essere gestiti in maniera diversa. Nel primo lock down noi siamo andati a prendere pazienti al nord Italia per trasportarli in altre città, perché su le strutture erano piene, non avevano più posti letto e quindi non solo i parenti non potevano vedere i loro i loro cari, perché erano ricoverati, ma in più se li sono ritrovati in città lontane, perché nella loro città di appartenenza non c’era posto letto. Noi, come in altre città dove c’era più possibilità di avere le ambulanze, andavamo per esempio a Milano a trasferire pazienti perché lì non c’era posto. E questo è successo anche all’inizio di questo nuovo lockdown! C’è stato Pistoia: è stato il primo Ospedale che ha chiuso il Pronto Soccorso perché non aveva i posti letto, dopo pochi giorni è successo ad Empoli. Ora per fortuna stanno diminuendo i ricoveri, stanno diminuendo le morti e la cosa si sta un pochino ristabilizzando, però diciamo anche in questa seconda ondata siamo stati presi in contropiede, pur avendo avuto tanto tempo per poterci organizzare. Però io come infermiera non arrivo ai vertici, diciamo che noi nel nostro piccolo abbiamo fatto dei protocolli che abbiamo immediatamente rimesso in atto questa volta, sia sulla gestione dei mezzi, delle ambulanze, del materiale da tenere sull’ambulanza, perché poi quando sale un paziente Covid, come ho spiegato, va sanificata tutta la l’ambulanza; quindi meno materiale presente sull’ambulanza, più semplice la sanificazione, più veloce. Appena ritornata l’ondata alta della pandemia, abbiamo messo in atto quei protocolli, che noi avevamo iniziato a fare a inizio settembre. Forse se a livelli più alti avessero pensato durante l’estate di creare delle strutture ad hoc si sarebbe evitato il problema dei Pronto Soccorso, in cui a un certo punto non potevano più accogliere pazienti perché non avevano più posti letto. Questo è successo anche a Firenze, ma per fortuna a Firenze ci sono più Ospedali, quindi se un Ospedale non poteva prendere un paziente, lo prendeva un altro, come può avvenire a Roma; però magari in paesi più lontani in cui tra un Ospedale all’altro ci sono 50 km, per il paziente non è semplice, questo trasporto così lungo. Anche perché un trasporto così lungo in ambulanza può implicare anche delle complicazioni al paziente stesso, perché in ambulanza solo alcune prestazioni possono essere eseguite e determinati sintomi, determinate patologie, hanno bisogno di essere trattate immediatamente, per esempio appunto la difficoltà respiratoria, e in ambulanza per di tanto non si può fare, vuoi perché l’ambiente è molto piccolo e quindi c’e un rischio maggiore di contagio, vuoi perché insomma ti ritrovi tu da solo con un paziente mentre in un Pronto Soccorso c’è un team che può lavorare tutti insieme. Quindi diciamo che la difficoltà maggiore è proprio questa, ma in questo momento sembra che la cosa si stia stabilizzando, sia grazie a questi blocchi di orari, queste chiusure di negozi, bar, ristoranti, discoteche, sia perché forse si spera il prima possibile si riesca a vaccinare tutti.

Che cosa provi quando negli occhi dei tuoi pazienti vedi gratitudine e riconoscenza?

 La gratitudine e la riconoscenza sono la nostra linfa, è quello che fa andare avanti, noi sanitari, è quello che ci gratifica nel nostro lavoro e ce lo fa fare sempre al meglio. Quando vedo negli occhi di un paziente e la gratitudine io mi riempio, mi dà modo di andare avanti nel mio lavoro, che purtroppo non è bellissimo – per quanto dire “non è bellissimo” può essere frainteso, secondo me è un lavoro meraviglioso! Però purtroppo noi lavoriamo con il dolore, con la malattia, con la sofferenza, con la morte. Quindi visto da questo lato non è un bel lavoro, però nello stesso tempo non sempre si hanno risvolti negativi, per fortuna spesso e volentieri ci sono anche risvolti positivi, perché vedere un paziente che insomma grazie alle nostre cure poi sta meglio, è la cosa più gratificante. Ma purtroppo se fino a qualche anno fa, fino all’anno scorso anche, vedevo gratitudine e riconoscenza da parte dei pazienti, oggi vedo soltanto paura, tanta paura nei loro occhi, paura terrore che ci fa star male, perché ci rendiamo conto che siamo -o almeno fino a poco tempo fa eravamo- impotenti contro questo virus, non sapevamo come gestirlo, non sapevamo come trattarlo, non sapevamo quali cure utilizzare per poter far star meglio le persone.

Tu che vivi quotidianamente le sofferenze di chi è colpito dal Covid-19 cosa pensi di quelle persone che parlano di complotto, che dicono che il Covid-19 non esiste?

Provo dispiacere perché vedo persone che non vogliono informarsi o si informano da fonti sbagliate e vedo più che altro persone egoiste e piccole, pensano soltanto a se stesse e non si preoccupano degli altri.

In conclusione il mio lavoro è fare l’infermiera e cercare di svolgerlo al meglio. Poi se di fronte a me ho un ladro, un assassino, una persona cattiva o la persona più buona del mondo non mi fa la differenza, in quel momento io devo svolgere il mio lavoro e lo faccio al meglio e tutti  noi operatori sanitari continuiamo a farlo  e se c’è  un dispiacere  è soltanto  quando non riusciamo a fare sempre ciò che abbiamo  fatto fino ad oggi.


Grazie Eleonora e tuo tramite vogliamo ringraziare tutti gli infermieri che in questi mesi hanno lavorato e continuano a lavorare con abnegazione, spesso con sacrificio della propria vita e se le strutture sanitarie, le emergenze continuano a funzionare è dovuto anche al fatto che siete un pilastro dell’intero Sistema sanitario.