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Racconti Pink: Il gran giorno (Francesca)

Il gran giorno

Si era sposata per amore e nulla più. O meglio stava per sposarsi, proprio quel giorno, ma il dubbio che si era insinuato sotto la pelle dal loro primo amplesso di pochi mesi prima, aveva raggiunto in poche ore la massima potenza.

Vivevano insieme già da tre mesi e le cose andavano bene, anche perché lui non c’era mai (“Sai gli orari di lavoro”). Lei era stracotta: dopo un fidanzamento durato cinque anni comprensivo di convivenza d’ordinanza con uno – bravo, eh – ma tanto piatto e noioso, finalmente era arrivato quello che lei meritava: alto, bello, elegante, con un volto serafico, le movenze da felino, gentile, buono, perfino intelligente e soprattutto tanto innamorato di lei da volerla sposare lì per lì. “Prima conviviamo, però” aveva detto lei, che si sa che la convivenza preserva da terribili errori matrimoniali.

Eh già.

Come un bel gioco in onore dei tempi che furono, quando una donna era onorata e soprattutto illibata prima del matrimonio, lei aveva accettato che lui dormisse a casa della madre la notte prima del matrimonio. La futura suocera era una donna tanto tanto su di giri e animata da una certa competitività (“Sono più figa di te, non te ne accorgi? Il figlio è mio e ama più me di te”).

Lui la chiamò la mattina presto, al numero di casa dei suoi genitori.

Che romantico.

“Stanotte non ho dormito…”

“No…?”, disse lei sognante, sicura di quel che avrebbe risposto lui.

“Niente, sai…”

“Come mai?” bisognava incoraggiarlo un po’, era fatto così, timido.

“È che mi è venuto un brufolo sul sedere”

“Che cosa?”

“Un male che non ti dico”

“E tu mi hai chiamato per dirmi questo?”

“Beh, sei quasi mia moglie…”

“Facciamo saltare tutto!” avrebbe dovuto dire lei e invece silenzio.

Un bell’antipasto, niente da dire. Mise giù il telefono bofonchiando che doveva finire di prepararsi, il vestito, il trucco e via dicendo. Demetros, il truccatore e acconciatore di fiducia, non è ancora arrivato. Fiducia mal riposta. Il telefonino squillava a vuoto, ma che fa?

Intanto si vestì. Un vestito bianco a balze, ma corto (“Che non sono più una verginella!”) che le stava d’incanto. Aveva anche un cappellino con una piccola veletta deliziosa a coprirle in viso. Aveva descritto la mise solo alla futura suocera, facendole presente che avrebbe indossato la veletta. La precisazione non era casuale: conoscendo il suo spirito antagonista, glielo aveva detto come una sorta di memento.

“Demetros! ma dove eri finito!” Esclamò vedendolo finalmente comparire trafelato e pallido come un cencio

“Avevo sbagliato a scrivere la data sull’agenda” rispose lui mortificato.

“E io come facevo? Mi truccavo da sola? E i capelli?” disse lanciando occhiate furibonde sul metro e settanta del trucco-parrucco, piccolino, però bellino, snello, moro come piacevano a lei… (“Dai, che ti stai per sposare, va bene che è uno dei pochi parrucchieri di Milano a non essere gay, ma … suvvia!”).

Demetros ancora tremante la fece sedere su uno sgabello davanti alla grande specchiera del bagno padronale, le coprì il vestito con un drappo (“Siamaichemisporchit’ammazzo”) e velocemente la truccò e parruccò.

Non le piaceva niente, sbagliati i colori, banale il ricciolo tirabaci, ma non c’era tempo. E poi sono bella lo stesso.

Una volta pronta – dopo un breve ma sincero momento di commozione con la sua testimone di nozze – si avviò verso l’uscita dove l’attendevano in automobile la sorella maggiore con marito francese alla guida.

Quando salirono sulla vettura senza fronzoli – che non si usava e in più si sa che i francesi sono tirchi – il cognato di Parigi le chiese, appunto, in francese

“Où allons-nous maintenant?”

“Mi devo sposare, Brunò! In Comune!”

“Quelle est la voie?”

“Scusa, Teresa, ma che dice?” fece rivolta alla sorella, un po’ stizzita.

“Non sa come andarci, qual è la strada?”

“Ossignur, non ci avevo pensato che questo viene dalla Gallia… Ferma la macchina!”

Bruno fermò con flemma (“È sempre così composto nelle emergenze oppure se ne frega bellamente?”) lei scese tenendo il cappellino con la veletta fermo sulla testa, e corse alla più vicina fermata di taxi, con il bouquet in mano.

Il taxista la guardò strano, abbassò il finestrino e lei

“Le pago la corsa, mi devo sposare, ci faccia strada che la seguiamo in macchina, mio cognato è straniero – disse alzando gli occhi truccatissimi al cielo – non sa come arrivare in Comune e io non capisco più niente! Sono la sposa!”

“Sì sì, facciamola corta!”

Villano.

In men che non si dica, con ambrosiana efficienza, il tassista li portò a destinazione. Durante il tragitto la sposa si era preparata mentalmente, spiritualmente, sentimentalmente, consciamente al grande passo che stava per fare.

Si sentiva un po’ stranita, con tutta quella gente intorno. Cercò lui guardando a 360°. Non pervenuto. Niente di strano, starà da qualche parte a sparare le sue solite scemenze (“Ma dai non fare così, lo ami!”).

Alla fine lo vide: i suoi amici della pallanuoto se lo palleggiavano, appunto, lanciandolo per aria con una serie di “Urrà urrà!” e lui che rideva nella sua giacca di fresco di lana blu su pantaloni grigi, spezzato perché mica siamo in chiesa. Che teneri! Si vogliono bene… secondo lei la squadra lo aveva salvato dal disadattamento sociale: piaceva alle donne, questo si sapeva, andava bene a scuola, anzi benissimo, ma aveva un che di asociale, di sfuggente che non avrebbe saputo dire. Come la telefonata per dirle che aveva un brufolo sul sedere per darle il buongiorno.

Lui, dopo essere sceso dal mucchio selvaggio si era fermato davanti alla sala della cerimonia e la stava aspettando per entrare insieme nel salone. Per un attimo furono felici all’unisono, sorridenti e gaudenti. Attorniati dai propri cari e dagli amici, assentirono alla loro unione imperitura e ascoltarono gli articoli del codice civile.

Alla fine della cerimonia lui si girò un attimo verso il suo amico Lele, che gli passò un involucro. Lei, che in quel momento non era in grado di intendere e volere, prese in mano quel coso impacchettato lungo e stretto senza lontanamente immaginare di cosa si trattasse. Quando lo scartò, vide con orrore che era un mattarello di legno. Tutti giù a ridere. In un primo momento anche lei a dire il vero, ma all’improvviso ebbe un lampo di lucidità (“Io sono un avvocato, che me ne faccio del mattarello? Mi vuole tenere a casa?) e consegnò, come finto omaggio, il “segno del comando” alla ormai suocera che ridacchiò soddisfatta.

La suocera ovviamente indossava un cappello con la veletta: blu, ma sempre veletta era.

La cerimonia finì e si diressero al ristorante. Niente da segnalare, se non la stanchezza anzi, lo sfinimento che li colse dopo qualche ora di banchetto.

Lei credeva che lui avesse pensato a tutto per quella sera. Quanto si sbagliava!

Lei contava improvvidamente sul fatto che lui avesse prenotato un posto meraviglioso, degno del loro amore e del loro ardore (“una suite in un castello o giù di lì”) e invece si ritrovò a salire in automobile, una vecchia Fiat 128 color verde pisello (“Gesù, l’avevo rimossa…”) e a percorrere 500 chilometri.

Guidava lui, almeno quello.

“Dove stiamo andando? Dove hai prenotato?”

“Non ho prenotato”

“Come non hai prenotato? È la nostra prima notte!”

“Seeeeh!”

Continuarono per un bel pezzo e arrivarono in Toscana. Lungo la via si fermarono a un autogrill per una sosta e, con sommo orrore di lei, l’acquisto di un provolone.

“Scusa che lo compri a fare il formaggio?” sospirò lei, ormai un po’ provata.

“Mi venisse fame…”

“Perché, non hai pensato a dove andremo a cena?”

“Ma quale cena, con quello che ci siamo strafogati!”

(“Ma come parla questo? Sta diventando un mostro solo perché ho un anello al dito? Va bene che si cambia con il matrimonio, ma subito, così?”).

Arrivarono nel paesino più brutto della Toscana, quasi non credeva che esistessero cittadine così squallide in una delle regioni più belle d’Italia.

Ad allietare il loro arrivo ci fu la scoperta che tutti gli alberghi – alberghi poi, pensioncine tristissime – erano pieni perché ospitavano diverse squadre di operai che stavano facendo non si sa quali lavori sulla linea ferroviaria. Lei stava veramente per arrabbiarsi, quand’ecco che lui, trionfante, trovò l’ultima camera libera in un tre stelle. Scaricarono la valigia, una per tutti e due (“Quando c’è l’amore…”) e lui volle portare anche il sacchetto dell’autogrill con la provola.

Mah.

Entrarono in una camera semplice ma pulita, con un bel bagno e due letti a una piazza e mezzo separati da un piccolo un passaggio nel mezzo. Lei andò in bagno a “prepararsi”, mentre lui, che poverino aveva guidato e si sa che le Fiat hanno lo sterzo pesante, si sdraiava un attimo su uno dei letti.

Aveva speso un capitale per reggicalze, calze bianche – che indossava per la prima volta in vita sua – bellissime con il loro bordo di pizzo, slip, reggiseno e push up. L’armamentario della seduzione della neo sposa! Indossò lo striminzito negligè bianco e, sentendosi un po’ ridicola perché aveva deciso di indossare di nuovo le scarpe alte di raso bianco della cerimonia, uscì dalla toilette.

Quello che vide fu orribile: lui stava consultando una mappa stradale addentando il provolone, lì sul letto. Non la degnò di uno sguardo. Non si accorse nemmeno che esisteva.

In silenzio si infilò nell’altro letto, tirò su il lenzuolo a una piazza e mezzo sul viso e pianse sommessamente. Troppo sommessamente. Lui continuava a non degnarla di uno sguardo.

Tirò su col naso, cercando di farlo sembrare una cosa carina, tenera.

A quel punto lui si accorse che esisteva.

“Che c’è? Dormi?”

“No” un mugolìo.

“Non riesci?”

“No” secondo mugolìo, pietoso a questo punto.

Lo colse finalmente il dubbio che stesse succedendo qualcosa. Si avvicinò al letto, sollevò il lenzuolo.

“Ma perché piangi?” disse con un misto di sincero stupore e gentile apprensione.

“Non mi guardi”.

“Ma no, che dici? Ti ho visto che uscivi dal bagno!”

A quel punto lei piangeva come un neonato. Il trucco disfatto. Una disfatta infatti.

“Non fare così – infilandosi nel letto di lei – Sono stanco morto, però se devo…”.

Lei subì l’amplesso, anche se non le dispiacque, lui finì e si congedò con un “Cià, fatto!” (“Mi venisse un colpo se dico bugie”), ed entrambi svennero, tramortiti dal sonno e dalla delusione, sopraffatti dalle responsabilità di quel rapporto che doveva teoricamente durare per la vita. Ciascuno nel proprio letto.

La mattina dopo, lei, con un pizzico di crudeltà, gli disse che voleva immortalare quei primi momenti e scattò una natura morta: la mappa stradale aperta sul letto sfatto di lui, con sopra il provolone con il segno dei denti e una calza bianca con il magnifico pizzo.

Ritratto di un matrimonio che inizia proprio male.

Ma quale inizio. Fine di un matrimonio.

Mentre lui era sceso a caricare la macchina, lei prese il telefono.

“Mamma, torno a casa”.