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Pink Society

lo sguardo rosa sulla società

Racconti Pink – Annalisa: bar Vittorio, Milano

“Un cappuccino e una brioche. Piccola”

“CAPPUCCIO E BRIOCHE, SIGNORA?”

“SI’, PICCOLA PERO’!”

Tutte le mattine così: da quando arrivano le mamme alle 9 fino alle 11, Yusef, il barista egizio-meneghino, non sente le clienti al di là del bancone. In cuor suo, scuote la testa sconsolato, i pensieri offuscati da parole risate saluti striduli, abbracci rumorosi.

Ai picchi di sdegno, entusiasmo, amore materno e altri esuberanti sentimenti che superano il livello di normale tollerabilità, sulla sua faccia si dipinge la disperazione allo stato puro.

Entra in scena la madre in ritardo: “Non riuscivo a trovare parcheggio!”.

La borsa, pesantissima, sbattuta sulla poltroncina

“Alla fine – continua – l’ho lasciata sulle strisce e chissenefrega, spero solo che non arrivi il solito ausiliario del traffico che odia quelli che hanno il SUV!”.

Poco dopo è comparsa quella che ha fatto solo capolino per poi fuggire precipitosamente nonostante fosse appena arrivata: trattasi di moglie-oberata-di-impegni-che-ne-sapete-voi:

“Devo passare da mia suocera a prendere le camicie di Mauro, le vuole stirare lei, dice che la filippina non è capace… Vado!! Ciao, ciao, ciao”.

Le altre la guardano per un istante, ma poi dimenticano presto la fugace apparizione.

Verso le dieci arriva quella un po’ grassa, rumorosa con i tacchi ticchettanti, i bracciali, le movenze eccessive che, con il suo inquietante tono di voce, mette magicamente a tacere tutte. Ma dura poco.

“Sei la solita ritardataria! Cos’è successo stavolta?”

“Ma stai zitta! È dalle nove che giro come una trottola” come se avesse appena finito un turno in fabbrica.

Yussef, a quel livello di decibel, prende le ordinazioni leggendo il labiale. A volte nemmeno quello, tanto ha memorizzato le abitudini di quelle femmine occidentali che da tempo ha rinunciato a capire.

Quando sbaglia, se la cava con un sorriso, mette la mano vicino all’orecchio e, con italico gesto rotatorio dell’indice, lascia intendere che non sente un tubo.

Questa, però, è meglio guardarla mentre cinguetta:

“Ginseng, tazza grande, senza zucchero, Yussef amooore me lo pooorti???”, contando sul ben noto ascendente delle donne formose sugli uomini arabo-milanesi.

In realtà a Yussef piacciono magre, ma fa finta per galanteria. In pochi secondi deposita con eleganza orientale la tazzina sul tavolino, facendosi spazio tra i quaderni colorati che lei aveva appena estratto da una borsa Vuitton.

“Ah, Moleskine, li adooooro! Sono per noi?”

“Zitte! State a sentire!”

Qualche muso lungo (“arriva questa e ci mette in modalità “mute”, come si permette?”).

“Mi è venuta un’idea SPLENDIDA!”

Sussulti e sguardi, tra l’incredulo e l’irritato.

“Scriviamo un libro insieme!”

“Come sarebbe?”

Le ragazze del Bar Vittorio si guardarono tra il divertito e il dubbioso

“Scusa Annalisa ma non abbiamo capito cosa vuoi dire…”

“Ognuna di voi scrive un racconto… in fondo non abbiamo nulla da fare, no? Però abbiamo un sacco di idee, tante cose che ci sono successe o che ci hanno raccontato: scabrose, divertenti, tragicomiche… Sarà il nostro libro! Divertente, no?”.

Reazioni tra l’incredulo e lo scomposto, risatine varie. Annalisa aggiunge: “i racconti li pubblichiamo come gruppo. Ci diamo un nome d’arte e poi troviamo un editore”.

Ovazione, le aveva in pugno: sapeva che la prospettiva di mettere nero su bianco le proprie esperienze attribuendole a qualche amica o personaggio inventato, era irresistibile.

Chi si sarebbe cavata un sassolino dalla scarpa, quell’altra avrebbe potuto finalmente parlare di un amore segreto, una avrebbe sputtanato – senza fare nomi, per carità – la sua “migliore amica” che se la intendeva con il marito.

Sarebbe scorso sangue vero, dietro il paravento di commediole romantiche.

Per il nome d’arte discussero un bel po’: “Les girls”? banale. “Noi-altre”, fa festa de noantri, “Le migliori” era un po’ troppo, “Le madamine infoiate”, pareva un po’ volgare.

Alla fine, trovarono un accordo: si sarebbero chiamate “Tacco12”.

Per qualche settimana, durante gli incontri pressoché quotidiani, scese un insolito silenzio: nessuna confessava di essersi messa all’opera, cambiavano discorso senza parere, ma Annalisa era sicura che tutte, ma proprio tutte avessero già scritto il loro racconto o ne avevano tirato fuori uno nascosto – ma non dimenticato – in un cassetto, lontano dagli occhi di marito, figli, suocera e cameriere.

Arrivato dicembre, Annalisa le inchiodò alle loro responsabilità:

“Lo facciamo o no ‘sto libro?! A che punto siete? Sono curiosissima di leggere i vostri racconti, chissà che belle storie vi siete inventate!”.

Inventate non proprio, fantasia zero, bastava guardarle in faccia. Ma un po’ di sana ipocrisia è un perfetto balsamo per l’amicizia, soprattutto quella interessata.

E poi Annalisa non avrebbe sopportato l’effetto boomerang (“puta caso che mi dicano che sono grassa e chiassosa, non reggerei alla notizia…”).

Insomma, come previsto, i quaderni erano stati riempiti di bella grafia. Alcune avevano incollato (orrore!) la stampata dal pc, ma andava bene lo stesso.

Si preannunciavano cose col botto!

Decisero di trovarsi il giorno di Sant’Ambrogio per un aperitivo e iniziare la lettura dei racconti ad alta voce, in ordine casuale. Annalisa voleva verificare l’impatto al primo ascolto per poi decidere se valesse la pena di pubblicarli. Ma questo non lo disse.

Claudia avrebbe prestato la propria bella voce, da giovane aveva fatto l’attrice, poi aveva rinunciato alla carriera, ma solo per amore, amore dei figli. “Ma ero già lanciata, eh!”

Sì, sì, pensava Annalisa, come no.

Ma l’amicizia è amicizia e Annalisa, con un sorriso falso e garbato, si predispose all’ascolto con le altre, uno spritz di consolazione preventiva.

Claudia iniziò a declamare, esitante, ma orgogliosa di sé il racconto di Sarah.

L’acca è di default, ci fanno caso solo quelli nati negli anni cinquanta…