fbpx

Pink Society

lo sguardo rosa sulla società

Racconti Pink – Laura: stupida

Lei non sospettava di essere una preda ideale: trentacinque anni, divorziata, senza figli, si aggirava per il suo piccolo mondo, fatto di lavoro, lunghe ore passate alla scrivania a studiare atti, fascicoli, scrivere memorie e ricorsi, dare consigli.

Poco il tempo per sé, per gli amici, per la vita, e quel poco sempre di corsa, gli occhi stanchi.

Ci teneva, però, ad essere in forma, tonica. E ben vestita e curata, che non si dicesse che una donna “in carriera” (ma come odiava quella definizione…) non fosse anche femminile.

Insomma, era una bella donna, anzi si piccava di essere meglio a 35 che a 20.

Lui aveva sentito parlare di lei da un collega, che l’aveva conosciuta per un consulto legale, gli aveva fatto un’ottima impressione (“bella donna, non credo che sia sposata, non porta la fede. Mi sembra più il tipo della separata. No, figli non mi sembra”).

Le fece una telefonata, la bella voce gentile, impostata, calda, e le disse di quel suo problema in ufficio, non le posso spiegare al telefono, ma se può ricevermi.

“Quando vuole” rispose lei alla voce gentile.

“La richiamerò presto, in questo periodo sono fuori in missione” soggiunse lui.

Era un carabiniere. Un’avvocata, lei, che non aveva motivo di essere diffidente – l’Arma nei secoli fedele – e rinunciò anche a quella scontrosità che aveva maturato negli anni.

In quel periodo il suo sguardo, quando si alzava dallo scrittoio, tradiva un tenero bisogno di non essere più sola.

Fu così che, quando lui venne in studio e iniziò a fissarla mentre leggeva i documenti che le aveva portato, seduto dall’altra parte del tavolo riunioni, avvampò. Balbettò addirittura e quando lui prese il giubbotto dall’armadio all’atto di andarsene, sentì un’energia che la spingeva contro il muro.

Non si spaventò. Pensò, anzi, di avere trovato un uomo con cui comunicava così, per via energetica.

Nei giorni successivi lui le fece telefonate sempre più frequenti. Era divertente, brillante, spiritoso, la faceva ridere.

Non pensò che era un vecchio trucco e volle cadere, nonostante lui avesse moglie e un figlio piccolo.

Dopo un periodo che le sembrò ragionevole gli ingiunse, ovviamente, di lasciare la moglie “devi scegliere: o me o lei”. Lui con i suoi occhi azzurri innamoratissimi e lucidi, le disse che la decisione era già presa.

Lui le raccontava delle sue missioni, in paesi lontani, dei pentiti di mafia, delle operazioni sotto copertura, il dispiacere di allontanarsi dal figlio, di non vederlo per settimane…

“Ce la farai a stare con uno come me?”

Lei le disse di sì, orgogliosa di lui e di sé. Eppure la pistola da cui non si divideva mai, quel guardarsi sempre le spalle, le prospettavano un futuro difficile, e si chiese se lui non fosse per caso un fissato, magari uno spostato. Ne aveva incontrati tanti.

Incominciò a domandargli come mai la scelta di una vita così.

“Se ami tanto tuo figlio, perché lo fai?”

Lui partì per una missione di qualche settimana, con un tempismo sospetto, ma le telefonate continue, affettuose, le fecero capire che lui la amava davvero.

Lei gli parlò della sua idea di comprare finalmente una casa tutta sua, l’aveva trovata, le piaceva: “peccato che tu non possa vederla”.

Pensava già di ricavare una stanzetta per suo figlio, magari mi accetterà, perché nel frattempo lui aveva preparato le carte per la separazione, la moglie le aveva firmate.

“Se vuoi nei prossimi giorni sarò a Parma, potremmo vederci lì, c’è un agriturismo bellissimo”.

Appena entrata nella stanza, luminosa e spaziosa, gli fece vedere la planimetria della casa, che lui afferrò e infilò con gesto rude nella borsa “la guarderò poi”.

Il lampo nei suoi occhi lo tradì per un istante e lei pensò immediatamente, stupendosene, che mai gliene avrebbe intestato metà, nonostante le allusioni ad aiuti economici da parte sua. Quel guizzo di realismo, la spaventò, ma i baci e le carezze fecero dimenticare tutto. La sensazione di appartenere a qualcuno che ti adora, la spiazzava.

Quando lui tornò dalla missione, era febbraio.

La sera di San Valentino, lei aveva preparato la cenetta, comprato la sua torta preferita, ma lui: “Mi dispiace tantissimo, amore – doveva precipitarsi all’aeroporto a prendere un pezzo grosso dell’Arma – non mi aspettare”.

Qualche giorno dopo iniziò ad alludere ad un’altra missione:

“Questa volta non so quanto durerà, te l’avevo detto che poteva essere dura stare con uno come me”, dissero i suoi occhi azzurro-mare.

Una sera lei tornò a casa e non trovò più traccia della sua esistenza: spariti vestiti, spazzolini, calzini, nemmeno la polvere aveva lasciato.

Le telefonò concitato: “Sono a Genova, ma riesco a tornare stasera, devo vederti, baciarti, ma poi riparto”.

Seguirono settimane di telefonate d’amore, di appostamenti interrotti per mandarti un bacio, “scusa devo chiudere, il tipo sta uscendo dal negozio. Dio come ti amo. Tornerò”.

All’improvviso il dramma: una telefonata in lacrime “un mio collega si è suicidato, ci eravamo scambiati un giuramento, che mi sarei occupato di suo figlio se gli fosse successo qualcosa” e, dopo un silenzio pesante come il piombo “devo stare vicino al ragazzo, sono nelle Marche, non mi chiamare”.

“Amore, sono io, il ragazzo è scappato – la voce rotta dall’emozione, il respiro irregolare – Devo trovarlo, ho paura che faccia qualcosa…”

“Non ti preoccupare, fai quello che devi, non pensare a me” la cretina.

“L’ho trovato, sono felice, abbiamo trascorso la notte seduti su uno scoglio al mare, mi ha parlato. Ora sta meglio, sai, ha solo tredici anni, come mio figlio. La madre non lo vuole tenere con sé, gli ho promesso che verrà a stare con noi, con Filippo sono come fratelli, sai. Sono disperato, ma dobbiamo lasciarci, questa cosa mi ha travolto la vita, non sono più io, devo, devo…”

Ci mise qualche giorno per capire che era un addio.

Rimase in silenzio per giorni. Nemmeno lacrime. Lo sguardo fisso, continuò a lavorare come se niente fosse, ma era come morta.

Mesi di disperazione nera. Non usciva, non parlava con nessuno, ingrassò.

I colleghi di lui, che la vedevano soffrire e sfiorire, le dicevano qualcosa di lui, quando lei con un filo di voce chiedeva.

Poi non chiese più. Poi dimenticò. Così sembrò.

Un giorno, in mezzo al traffico milanese, era in macchina con Michela che, guidando e guardandola di sottecchi, le disse la verità.

Lo conosceva da tempo, disse.

“Marco lavora alle volanti, non si è mai spostato da Milano, è divorziato da molti anni. Abborda donne sole, possibilmente in carriera, possibilmente con i soldi. Di te diceva che eri diventata ingestibile, facevi troppe domande, troppi drammi. Per questo ti ha lasciata”.

Lei era pallidissima e sentì ancora: “La notte di San Valentino era andato a cena con Luana, la sua nuova fiamma, che gli aveva appena comperato una Harley Davidson, nuova di pacca”.

“Sì, ricordo che mi portò davanti alle vetrine di un negozio di motociclette, gli piacevano tanto”, riuscì a dire lei.

“Forse sperava che gliene comprassi una…” pensò.

E si sentì morire di vergogna.

Stupida.

********

“Non ci posso credere, a una donna come te?”

“Un carabiniere! non ci si può fidare più di nessuno!”

“Ma scusa, la tua amica non poteva fare a meno di dirti la verità?”

“No, sempre la verità, bisogna guardarla in faccia”

“Cavolate! Non la voglio sapere la verità, lo diceva anche Caterina Caselli: ‘mi fa male, lo so’”

“Sono una banda di rimbecillite queste qua – pensò fra sé e sé Annalisa – però i racconti non sono male. Anche questo qua, di sto’ viscido di carabiniere, ma anche lei che deficiente…”

“Va bene ragazze, non litigate! stiamo andando benissimo!” disse infine ad alta voce.

“Ma tu non hai scritto ancora niente”

“Dulcis in fundo… – Annalisa aveva fatto il classico, anche se non si sarebbe detto – Dai, avanti con la prossima! Grazie, Claudia, leggi!” intimò.