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Test genetico pre-impianto: l’indagine sullo stato di salute dell’embrione. Ecco perché farla a prescindere dal numero di embrioni ottenuti

Test genetico pre-impianto: l’indagine sullo stato di salute dell’embrione. Ecco perché farla a prescindere dal numero di embrioni ottenuti
Image by Freepik

Uno studio del gruppo Genera presentato al congresso Eshre 2023 di Copenhagen esplora l’efficacia della tecnica secondo alcuni importanti indicatori

Il test genetico pre-impianto per aneuploidie (PGT-A) è stato messo a punto con l’obiettivo di identificare gli embrioni con assetto cromosomico normale, tra quelli prodotti durante un ciclo di Procreazione medicalmente assistita (PMA). Questi embrioni sono meno soggetti a rischio di aborto e hanno una maggior chance di risultare in una gravidanza a termine. Ma ha senso eseguire la PGT-A anche se sono stati ottenuti solamente 1-2 embrioni, piuttosto che procedere al trasferimento in utero senza alcuna informazione in più sul loro stato di salute? La risposta è sì, secondo uno studio scientifico presentato dal gruppo Genera insieme a Juno Genetics come poster al 39esimo congresso della Società europea di Medicina della riproduzione ed embriologia (ESHRE) in corso a Copenhagen.

La PGT-A mira a ottenere un incremento dell’efficienza di ciascun singolo trattamento, nel contempo minimizzandone i possibili rischi. L’insorgenza di anomalie cromosomiche è, infatti, un evento de novo (cioè non ereditario) che può avvenire nel processo di maturazione dell’ovocita o dello spermatozoo.

Il rischio di produrre embrioni cromosomicamente anomali è strettamente proporzionale all’incremento dell’età della donna. Ecco perché questa tipologia di test è indicata per le donne over 35 (l’età media delle donne che accedono alla PMA è di 36 anni e il 30% sono over 40), fascia d’età nella quale aumenta notevolmente il rischio di anomalie cromosomiche negli embrioni. Si pensi che all’età di 27 anni è circa 1 gravidanza su 450 ad essere caratterizzata da un bambino con anomalie cromosomiche, a 35 anni è circa 1 caso su 300, circa 1 caso su 60 per le quarantenni, fino ad un allarmante 1 su 20 all’età di 45.

Gli obiettivi della PGT-A sono numerosi: diminuire il tasso di aborto (il quale può ridursi fino a un quarto rispetto a pazienti della medesima età che si sottopongono ad un convenzionale ciclo di PMA), incrementare il tasso di gravidanza a termine per trasferimento embrionale (il quale aumenta mediamente fino al 50% per singolo embrione trasferito), nonché appunto di testare la presenza nell’embrione di patologie cromosomiche, quali per esempio la sindrome di Down (trisomia del cromosoma 21). Inoltre, l’ottimo potenziale riproduttivo di embrioni euploidi consente di trasferirne uno solo, abbattendo così il rischio di gravidanze gemellari.

La PGT-A, inoltre, riducendo il numero di trasferimenti embrionali inefficienti e potenzialmente rischiosi per la donna sia sotto il profilo fisico che psicologico, fornisce una strategia dalle potenzialità elevatissime che sta trovando una sempre maggiore applicazione clinica nella PMA.

Lo studio ‘PGT-A and euploid transfer is more efficient than untested transfer in patients obtaining 1 or 2 blastocysts: a propensity score matching-based study’ formula la domanda se sia vantaggioso in ogni caso procedere con il test, anche quando sono state ottenute 1 o 2 blastocisti, piuttosto che procedere con il semplice transfer ‘a scatola chiusa’.

“Alcuni centri di Medicina della riproduzione – spiega Cindy Argento, primo autore del lavoro e ginecologa presso il centro Genera di Roma – non applicano la PGT-A in presenza di soli 1 o 2 embrioni per dare la possibilità alla paziente di ‘tentare’ comunque il transfer, non essendoci la possibilità, nei fatti, di scegliere l’embrione più promettente. La differenza sta nel modo in cui si utilizza questo test: se concepito solo come un esame per la prioritizzazione degli embrioni da trasferire, daremmo ragione a questi centri. Se, invece, come siamo soliti fare presso il nostro gruppo, la PGT-A viene considerata un test cromosomico a tutti gli effetti, in grado di ridurre il rischio di aborto, minimizzare il rischio di gravidanze cromosomicamente anomale, e ridurre il tempo per concludere il proprio trattamento, a quel punto anche 1-2 blastocisti sono sufficienti per utilizzarla in maniera vantaggiosa. E’ un problema investigato poco in letteratura, per cui abbiamo studiato una popolazione di 237 pazienti che avevano ottenuto 1 o 2 embrioni sottoposti a PGT-A, e 237 pazienti che avevano ottenuto 1-2 embrioni ma avevano scelto di non testarli. Abbiamo analizzato tutti i possibili indicatori, ma il più importante è stato quello del tasso di aborto per coppia. In molti casi, nel gruppo PGT-A non sono stati trasferiti embrioni in quanto tutti aneuploidi, ma ciò non ha avuto alcun impatto sulle chance di gravidanza cumulative per ciclo (le pazienti con almeno 1 bimbo nato sono state rispettivamente 24 e il 27% senza e con PGT-A). In altre parole, la PGT-A ha risparmiato in molte coppie transfer inutili e potenzialmente rischiosi, oltre che mediamente un mese di tempo per concludere con successo il loro trattamento. Il tasso di aborto nel gruppo senza PGT-A è risultato del 28% contro il 12% del gruppo con PGT-A (9 donne hanno abortito contro 21). In sintesi, anche se si hanno 1-2 blastocisti e si ha indicazione alla PGT-A per età materna avanzata, si mantengono i vantaggi di questa tecnica: l’obiettivo di una gravidanza a termine può infatti essere ottenuto in questo modo con meno transfer e meno aborti, quindi meno tempo. Certamente questa tecnica ha un costo addizionale, il quale è giustificato da una maggior efficienza del trattamento”.