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Correre cambia la vita: perché la corsa è un gesto gentile che rafforza corpo e mente a ogni età

Correre cambia la vita

Si inizia a correre per ragioni molto diverse. C’è chi lo fa per rimettersi in forma, chi perché coinvolto dagli amici, chi per ritrovare fiducia dopo una malattia, come un gesto di rinascita. E poi c’è chi corre semplicemente perché, un passo dopo l’altro, scopre che la corsa fa stare bene.

Anch’io sono partita per caso, nel 2001, durante un periodo trascorso a Seattle. Una città dove correre è parte del paesaggio umano: i parchi, i waterfront, le persone che sembrano non smettere mai di muoversi. Ho cominciato per integrarmi, prima con distanze brevi e alternando tratti di corsa ad altri di camminata per riprendere fiato, poi con distanze sempre un po’ più lunghe. Faticavo, eccome, ma sentivo che diventava meno faticoso e poi provavo una leggerezza nuova e una forma di libertà.

Tornata a Milano ho continuato e la corsa è diventata un’abitudine irrinunciabile. I miei percorsi all’inizio erano due: il Parco di Trenno e la Montagnetta di San Siro. All’epoca i runner non erano tanti come oggi, e ritrovarsi sempre con gli stessi — talvolta si vedeva anche Linus di Radio Deejay — creava una rassicurante familiarità soprattutto quando si corre da soli. Da quegli incontri silenziosi nasceva una sensazione: qui sto bene.

Poi sono arrivate le prime gare, i 10 km e poi il desiderio di mettersi alla prova l’asticella si alza e dunque la prima mezza maratona a Piacenza. Mi ricordo ancora la fatica nei giorni successivi, ma anche il gusto — quasi sorprendente — di avercela fatta. La corsa, del resto, ha una forza democratica si è liberi di correre quando e dove si vuole: per iniziare bastano un paio di scarpe di buona qualità, adatte al proprio passo e la determinazione. E forse anche per questo conquista così tante persone.

Correre fa bene :)

Con il tempo qualcosa cambia. Migliori, fai meno fatica, nascono nuove curiosità. Per me il punto di svolta è stato l’ingresso nel Gruppo Urban Runners Milano, una squadra giovane allora, ma già con un’identità fortissima e un motto inclusivo: “nessuno rimane indietro”. Era esattamente ciò che cercavo. Due allenamenti di gruppo alla settimana con i “pacer”, livelli diversi, tecniche, ritmi, consigli. E la scoperta che insieme si cresce davvero: si corre meglio, si respira meglio, si pensa meglio.

Le mezze maratone sono diventate quasi una routine, una alla settimana. Nel frattempo, tanti compagni di squadra correvano maratone e l’idea cominciava a sfiorare anche me. Mi spaventava la preparazione con le famose tabelle con distanze, ripetute, fartlek… più della distanza. Ma mentre si avvicinava il compleanno dei 60 anni — quel sei davanti che mi dava veramente fastidio e che non volevo guardare in faccia — il pensiero si è fatto più insistente.

Con la spinta di Sara, Cristina e Brigitte, ci siamo iscritte alla Maratona di Parigi. Prepararla con Cristina è stato un viaggio nel viaggio: le tabelle di Andrea Gornati, le corse sotto la pioggia, gli allunghi, i lunghi della domenica tutte insieme, il lunghissimo. L’allenamento non è solo disciplina: è anche la fatica detta ad alta voce, la motivazione condivisa, la consapevolezza che non sei sola. E quel Garmin che registra tutto, a volte con troppo zelo.

Correre fa bene :)

Parigi è stata una festa: la città, l’organizzazione impeccabile, l’arrivo all’Arc de Triomphe. Un’emozione che ti attraversa e che, incredibilmente, non lascia addosso la stanchezza che temevi. Da lì in poi, una maratona ha chiamato l’altra: Roma — proprio il giorno del mio compleanno — poi Napoli.

La scorsa primavera, con Paola, abbiamo deciso che era arrivato il momento di affrontare la maratona più simbolica: Atene, la prima, l’originale. Prepararla significava correre d’estate, nell’afa di luglio e agosto, facendo lunghi interminabili da 33 km sul Naviglio, sotto il sole, senza un albero ma con le fontanelle, che diventano un salvavita. Durante le vacanze ci sostenevamo a distanza: messaggi, telefonate, sfoghi, promesse di “questa è l’ultima”. E intanto continuavamo.

A settembre la 30 km di Monza è stata una prova severa: ancora caldo, l’Autodromo con la pendenza della pista, la fatica che si stratifica, chilometro dopo chilometro.

In volo verso Atene

E poi finalmente Atene, con la sua attesa fatta anche di attenzione alle previsioni meteo, strategie alimentari, rituali della vigilia: pettorale, gel o frutta secca — io scelgo fichi e uva passa — e naturalmente il Garmin, compagno immancabile che sa tutto di te e che non fa sconti!

La mattina della maratona comincia presto, molto presto, con la colazione abbondante e la navetta verso Maratona, tra centinaia di mantelli termici arancioni. C’è silenzio e c’è tensione, quella bella che dà la carica: la somma di mesi di preparazione. Quando arriva lo sparo, tutto svanisce e resta solo la corsa.

Il percorso è impegnativo, ma gli occhi si riempiono delle storie degli altri: gli esperti che sembrano volare, gli anziani che regalano una lezione di resistenza, chi corre per una charity, chi spinge una carrozzina per condividere un’emozione con chi non può correre. È un’umanità vasta, generosa, commovente.

E poi l’arrivo allo stadio Panathinaikos, bianco, maestoso, carico di storia: un’emozione piena, quasi disarmante. E la stanchezza? Meno di quanto pensassi. Perché è l’allenamento, quello che a volte ho detestato, ad aver fatto il suo lavoro.

Ed è in quel momento — sempre, inevitabilmente — che nasce la domanda che ogni maratoneta conosce perfettamente: La prossima quale sarà?

maratona di Atene