Dialogo con Sara Simeoni, la regina italiana dell’atletica
“Come può uno scoglio arginare il mare,
anche se non voglio, torno già a volare
Le distese azzurre e le verdi terre
Le discese ardite e le risalite,
su nel cielo aperto e poi giù il deserto,
e poi ancora in alto con un grande salto“
(Lucio Battisti)
La prima donna al mondo a superare i 2 metri nel salto in alto è stata una ragazza della provincia di Verona, dal sorriso genuino e dalla capigliatura folta. Non c’erano i social all’epoca, non esisteva il culto della propria immagine da diffondere quotidianamente sul web e non c’erano neanche gli sponsor a gestire l’abbigliamento, il look e il programma giornaliero delle interviste degli atleti. Nell’atletica, la regina degli sport, le risorse economiche erano spesso limitate, in quel contesto passione e sacrificio erano due componenti essenziali per raggiungere i grandi risultati. La grandezza di un’atleta come Sara Simeoni perdura anche grazie alla potenza intramontabile di un purissimo mito che troneggia tuttora nella storia dello sport italiano e mondiale. Ed è un mito che vive ovunque si parli di sport e di salto in alto. Prende forma nella straordinaria umanità di una donna da sempre priva di sovraesposizioni mediatiche, che a volte confondono e manipolano.
Sara Simeoni nasce a Rivoli Veronese il 19 aprile del 1953. Compie i primi importanti passi sulle pedane del salto in alto sotto l’occhio del tecnico Walter Bragagnolo e poi di Erminio Azzaro, che diventerà suo marito. L’inarrestabile e costante progressione nelle misure dei salti culmina con il record conseguito di Brescia il 4 agosto del 1978, un 2.01 storico che la proietta sul tetto del mondo. Un record eguagliato qualche settimana più tardi a Praga. Memorabili furono i suoi duelli con Rosemarie Ackermann, tedesca della Germani Est e Ulrike Meyfarth, tedesca dell’Ovest. La soddisfazione più grande per Sara arriva nel 1980 con la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca, ma nel suo curriculum spiccano anche due medaglie d’argento ai giochi olimpici (Montreal 1976 e Los Angeles 1984), un oro e due bronzi agli europei, quattro ori agli europei al coperto, due vittorie alle Universiadi e ai Giochi del Mediterraneo e ben 24 titoli italiani.
- Buonasera dottoressa Simeoni, ci racconti come è nata da bambina la sua passione per l’atletica e in particolare per il salto in alto
Quando ero alle scuole medie il mio insegnante di educazione fisica faceva da tramite con una società di atletica e così entrai in quel mondo. Ne sapevo pochissimo di atletica, in quegli anni le uniche immagini degli altri sport arrivavano a noi solo in occasione delle Olimpiadi. All’inizio l’unico obiettivo per noi ragazzi era ritrovarsi al di fuori del contesto scolastico per fare sport, non avevamo ambizioni o sogni particolari.
- La sua famiglia l’ha sempre sostenuta in questa scelta oppure ricorda qualche resistenza da parte dei suoi genitori?
I miei genitori erano contenti, venivano spesso a vedere le nostre gare. Durante i primi anni erano gli stessi genitori a sovvenzionare la società, si sentivano parte integrante del movimento. Per loro era importante conoscere i nostri compagni, sapere dove si andava a gareggiare e chi ci avrebbe accompagnato. Il divertimento ovviamente aumentava quando cominciarono ad arrivare le prime vittorie di qualche garetta giovanile.
- Ha ottenuto uno storico record del mondo con una sola telecamera al seguito e pochissimi giornalisti presenti a Brescia, come mai?
C’erano solo televisioni locali perché in quel giorno il meeting della Nazionale di Atletica Italiana e della Nazionale della Polonia si disputava a Venezia per gli uomini e a Brescia per le donne. La Rai decise di seguire l’evento maschile, ma per fortuna qualcuno documentò tutto e a distanza di qualche anno sono venute fuori le immagini dei miei salti.
- Marco Tardelli sostiene che l’aver segnato un gol nella finale del Campionato del Mondo è stata l’emozione più bella della sua vita e che durante la famosa esultanza la sua mente ripercorreva tutti i momenti più importanti della sua vita, quasi come se fosse in punto di morte. Quando 40 anni fa lei ha vinto l’oro olimpico a Mosca in un’Olimpiade travagliata per questioni politiche, qual è stato il suo primo pensiero?
Appena ho realizzato di aver vinto un’Olimpiade ho avuto una crisi di pianto inarrestabile! In quella occasione ero la favorita numero uno, l’obiettivo era l’oro, ero l’atleta da battere e tutti si aspettavano che vincessi. Ma le aspettative valevano anche per me stessa. E’ stata la prima e unica volta in cui ho avuto paura prima di cominciare la gara, la tensione era talmente alta che nella prima mezz’ora in pedana effettivamente non credo di averci capito molto della situazione che stavo vivendo. Per fortuna sono riuscita a ritrovare la calma, di sicuro non mi sarei perdonata di non vincere in quella occasione.
- Nel salto in alto le pause tra un salto e l’altro sono piuttosto lunghe e logoranti, le è mai capitato di perdere totalmente la concentrazione e di viaggiare con la mente lontano dalla pista di atletica e dall’obiettivo da raggiungere?
Mi vengono in mente proprio le Olimpiadi di Mosca. Durante le pause mi sono messa a osservare lo stadio e cercavo di assaporare l’atmosfera che si respirava, mi dicevo “Chi l’avrebbe mai detto, sto gareggiando per una finale olimpica”. Appena terminata la mia gara in realtà non ricordavo nulla di ciò che avevo pensato e visto in precedenza perché mi resi conto di essere in totale trance agonistica, che è diverso dall’essere deconcentrati.
- C’è stato un momento della sua carriera in cui è stata sul punto di mollare perché non se la sentiva più di continuare?
Francamente non è mai successo, forse perché a parte la gara dell’Olimpiade non sono mai stata ossessionata dal risultato a tutti i costi. Era come una missione, mi allenavo duramente e feci delle scelte che non erano la normalità per una ragazza di quell’epoca. Non avevo alcuna garanzia del presente e del futuro dopo l’atletica e men che meno del successo. Non avevo alle spalle un’organizzazione, una struttura o qualcosa del genere che mi dava la sicurezza di reinserirmi nel mondo dello sport una volta ritiratami dall’attività. Ho scelto la via sicuramente più difficile e nessuno mi ha mai regalato nulla, mettiamola così.
- Qual è il ricordo meno piacevole di tutta la sua lunga carriera agonistica?
Ce ne sono stati, si è trattato perlopiù di invidia. All’inizio mi chiedevo come fosse possibile che delle persone ti ignorassero completamente, poi ho capito che esisteva anche questo prezzo da pagare. A un certo punto ho deciso di non dar più peso a queste cose e sono andata avanti facendo finta di nulla.
- Lei e il compianto Pietro Mennea siete ancora i due simboli indiscutibili dell’atletica italiana e dello sport tricolore, tra l’altro siete nati ad un solo anno di distanza, lui nel 1952 e lei nel 1953. I vostri risultati sono straordinari ancora oggi, non a caso Ruth Beitia, la medaglia d’oro nel salto in alto femminile a Rio, nel 2016 ha saltato “solo” 1.97 cm. Quando ha capito fino in fondo la grandezza del suo record?
Credo che in quegli anni io e Pietro non abbiamo deluso chi ci seguiva, è stato un crescendo di risultati e chi veniva a vedere le gare tornava sempre soddisfatto a casa. C’erano sempre gli stadi pieni quando giravamo l’Italia. Il mio risultato l’ho valorizzato maggiormente con il trascorrere degli anni perché quando sei in attività non puoi cullarti sugli allori e vivere di rendita. Pensavo quasi esclusivamente all’atletica. Anch’io sarei potuta andare più spesso in televisione o fare dei servizi fotografici, però non me la sono sentita di togliere energie e tempo ai miei allenamenti. Nel mondo contemporaneo vedo molti giovani sportivi sempre alle prese con questi social, con la cura quotidiana della propria immagine… ecco, non so se sarei riuscita a coniugare dovere e piacere ai miei tempi, o quantomeno non so se avrei raggiunto ugualmente i risultati sportivi che ho raggiunto.
- Pensa che manchi qualcosa al movimento dell’atletica italiana in questi ultimi anni?
Non sto seguendo molto da vicino gli ultimi sviluppi dell’atletica italiana, da quel che so molti atleti si gestiscono in modo indipendente i propri allenamenti. Credo che ai miei tempi ci fossero più raduni, si stava più insieme. L’atletica è già uno sport individuale e penso sia deleterio isolarsi completamente dai propri colleghi e dai compagni di squadra. A me piaceva socializzare e allenarmi con gli altri, anche perché mi dava una motivazione, era più stimolante.
- Se non avesse conosciuto Erminio Azzaro, suo allenatore e attuale marito, Sara Simeoni sarebbe ugualmente diventata la grande atleta Sara Simeoni?
Credo sinceramente che avrei smesso di essere un’atleta. Sono stata io a chiedergli di diventare il mio allenatore. Lui, ad ogni modo, avrebbe presto smesso definitivamente di gareggiare nel salto in alto perché aveva un problema al ginocchio. Tra l’altro era piuttosto giovane, aveva solo 23 anni. Io gli dissi “O mi alleni tu o mi ritiro”. Lui si sentiva ancora un’atleta e non aveva mai allenato, lo colsi di sorpresa. La nostra potrebbe sembrare una fiaba da raccontare, tutta rose e fiori, ma ci sono stati anche litigi significativi, soprattutto quando le cose non andavano per il verso giusto durante le gare (ride, ndr).
- Lei ha insegnato Scienze Motorie da molti anni all’Università di Chieti, cosa ne pensa della didattica a distanza? Come sta vivendo questa situazione legata al Covid e le relative restrizioni?
Adesso sono in pensione, ma ho insegnato per dieci anni a Chieti all’Università. Ho insegnato anche alle scuole medie, in un istituto del Lago di Garda. Questo è un periodo molto difficile per tutti, l’anno scorso eravamo sicuramente più predisposti ai sacrifici, ora è diventato più complicato vivere normalmente e lavorare. La salute è un bene non barattabile, ma ritengo comprensibile e sacrosanta anche la naturale voglia di tornare alla normalità. I giovani vanno capiti, per loro è più dura. Allentare le misure comporta a volte un peggioramento dei numeri e quindi comprendo che si tratta di decisioni difficili da prendere. Sulla didattica a distanza ho molte perplessità. Fino a un anno fa, ad esempio, andavo nelle scuole per incontrare i ragazzi, poi gli incontri sono avvenuti sulle piattaforme online. L’alternativa degli incontri online può andare bene ogni tanto, ma i ragazzini preferiscono la presenza fisica, magari chiederti un autografo, fare domande mentre sono in gruppo, vederti da vicino. L’educazione fisica a distanza, poi, è un totale controsenso! Queste nuove tecnologie sono utili ma non devono essere messe sull’altare perché ti tengono sempre a distanza. Si corre il rischio di abituare i ragazzi a non avere nessuno attorno, a non socializzare. Non è una cosa molto sana secondo il mio punto di vista.
- Concludiamo tutte le nostre interviste con tre domande le cui risposte saranno successivamente raccolte in un pezzo unico. Qual è il libro che sta leggendo? Quale canzone la sta accompagnando in questo ultimo periodo? Qual è il suo piatto preferito?
Sto leggendo “A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia” di Aldo Cazzullo, trovo che sia un libro meraviglioso. A me piace indubbiamente mangiare, con mio marito preferiamo cucinare gli spaghetti con aglio, olio, peperoncino, olive e acciuga. L’aver girato in lungo e in largo l’Itala ci ha permesso di acquisire una congrua varietà gastronomica, a casa non cuciniamo solo piatti veneti o campani. A casa la nostra cucina è nazionale! In questo periodo non troppo allegro per l’umanità non ascolto molta musica, ma guardo soprattutto film che mi fanno ridere come quelli di Bud Spencer.
Giornalista pubblicista, vive a Roma, ma di radici e origini ponzesi. Fotografo a tempo perso, appassionato di letteratura, heavy metal e new wave da sempre. Per Bertoni Editore ha pubblicato “Siamo Uomini o Calciatori”.