A tu per tu con Manuela Di Centa, l’imperatrice italiana dello sci di fondo
“È difficile abbattere i friulani. Ci hanno provato guerre, miserie, terremoti, alluvioni, frane, e inverni da castigo. Niente da fare, il friulano non lo stendi. Fisicamente è vulnerabile come tutti, moralmente no. Moralmente il friulano è fatto di ghisa. Il friulano ha senso dell’amicizia. La generosità è il suo pane. Altruista fino al sacrifico, quando occorre è in prima linea. Affidabile e generoso, il friulano è un vero amico. È un duro dal cuore buono e il suo smisurato orgoglio non risulta antipatico bensì qualcosa da ammirare.”
Mauro Corona
Il paesino di Paluzza sorge nella valle del But e nel cuore della Carnia e il 31 gennaio del 1963 ha visto nascere Manuela Di Centa. Una delle più grandi sciatrici italiane della storia è cresciuta con un destino che sembrava già scritto, tra le montagne friulane e grazie ai primi sci costruiti artigianalmente dal padre, Gaetano. Nella famiglia Di Centa si respira quotidianamente aria di neve e di sci, a cominciare da Andrea, il fratello maggiore di Manuela, promettente atleta che vede la sua carriera terminare precocemente dopo un incidente in motorino. Poi è il turno di Manuela che negli anni ’90, dopo molti sacrifici, diventa la regina italiana dello sci di fondo, seguita a ruota da Giorgio, un altro campione della famiglia Di Centa, il terzogenito che alle Olimpiadi di Torino vince l’oro nella 50 km. La medaglia le viene consegnata proprio da sua sorella Manuela che nel frattempo è diventata dirigente del Comitato Olimpico. E’ un cerchio che si chiude, una storia che somiglia a una trama di un film epico.
Nella carriera sportiva di Manuela Di Centa spiccano le due memorabili medaglie d’oro alle Olimpiadi di Lillehammer nel 1994 e le due vittorie in Coppa del Mondo generale, nel 1994 e nel 1996. A questi storici trionfi si aggiunge una serie interminabile di medaglie d’argento e di bronzo, senza dimenticare i moltissimi podi nelle gare singole di Coppa del Mondo. Il carisma e la determinazione di Manuela si riverberano anche al di fuori di un percorso innevato e le soddisfazioni personali arrivano dal fronte dirigenziale dello sport, quando diventa membro del CIO e vicepresidente del Coni, e dal versante politico, dove viene eletta parlamentare nel 2006. La continua ricerca di nuove sfide nella vita la conduce nel 2003 a scalare la cima dell’Everest con l’ausilio di bombole di ossigeno, diventando la prima italiana a compiere l’impresa.
- Buongiorno dott.ssa Di Centa, ci racconti la sua infanzia e come è nata la sua passione per lo sci di fondo a Paluzza, nel suo paesino ai piedi delle Alpi Carniche
Nasco in mezzo alle montagne, papà allenatore e maestro di sci, mamma non sportiva nel senso stretto del termine ma donna forte e con un grande senso del sacrificio e quindi anche dello sport. C’era Andrea, mio fratello maggiore, che organizzava le nostre Olimpiadi infantili nel bosco innevato, facevamo gli slalom, il salto, le gare, lo sci di fondo, interpretavamo le nazioni e le bandiere. A 4 anni ho indossato i primi sci… in realtà erano due pezzi di legno! (ride, ndr). Abbiamo sempre respirato lo sci e siamo sempre stati immersi nella neve e nei profumi della montagna.
- La sua famiglia ha mai influito sulle sue scelte quando era giovane?
Devo ringraziare mio padre che non vedeva differenze di genere perché all’epoca le donne nello sci non erano neanche considerate, basti pensare che fino agli anni ’90 non esisteva neanche una Nazionale femminile di sci nordico. Sulle femminucce c’era un pregiudizio fisico, si diceva che lo sci di fondo avrebbe rovinato il corpo femminile ed era considerato uno sport maschile perché troppo faticoso, oltre al fatto di esser visto come uno sport dei “poveri”. Ho dovuto faticare molto con i pregiudizi, non lo nego, ma quando negli anni ’90 lo sci femminile italiano è salito alla ribalta delle cronache anche i preconcetti vennero definitivamente accantonati. I tempi, per fortuna, sono cambiati e si è visto che invece lo sci di fondo si concilia alla perfezione con il corpo delle donne, anzi, aiuta a migliorarlo! Ciò vale anche per la mente, è uno sport che ti aiuta a ritrovare l’equilibrio psico-fisico. Alle bambine e anche ai bambini deve essere consentito di fare ciò che li fa stare bene, sia in fatto di sport, che in un periodo di pandemia lo ritengo fondamentale, che di altre attività. Devono avere la libertà interiore di scoprire il proprio corpo e la propria mente.
- E la Federazione come si poneva nei vostri confronti?
Ci diceva apertamente che noi valevamo meno e anche i premi che ci spettavano erano inferiori del 30% rispetto agli uomini. Ho cercato di affrontare queste difficoltà provando a cambiare e a sovvertire culturalmente queste discriminazioni e con enorme soddisfazione credo di aver ottenuto dei buoni risultati per tutto il movimento. Quando ho lasciato l’attività agonistica a 35 anni sono diventata subito un dirigente e mi sono battuta anche per questi diritti, ho cominciato a portare anche al Comitato Olimpico queste istanze. Sotto questo punto di vista lo sport è migliorato molto, ma non bisogna mai dimenticarsi da dove si è venuti, il cambiamento senza memoria rischia di non essere duraturo e quindi le giovani generazioni dovrebbero conoscere la storia di questo sport. Una volta ritiratami dall’attività agonistica ho cercato di approfondire anche l’aspetto sociale e psicologico dello sport per migliorare la condizione di atlete e atleti.
- In una puntata di un programma sportivo della Rai a lei dedicata la voce narrante la descrive come una persona “estroversa ai limiti della spavalderia, indipendente, anticonformista, insofferente alla disciplina, una rivoluzionaria che ha cambiato le regole dello sci di fondo”. Si rivede in questa descrizione?
Sì, ma vorrei precisare che per quanto riguarda le regole e la disciplina ci potrebbe essere un equivoco nel senso che ritenevo sbagliati concetti, come la diseguaglianza di genere e lo facevo notare senza timore. Ritengo di essere una persona che lotta, che quando è convinta di una cosa la porta avanti con convinzione. Quando vedo ragazze che non sono state umiliate come lo sono stata io in alcuni frangenti e che sono libere da etichette retrograde, lo ritengo un grande successo. Le racconto un aneddoto. Una volta ho discusso con un dirigente federale contrario al salto del trampolino per le donne, sosteneva di essere preoccupato perché le ragazze avrebbero potuto farsi male ai seni. Io gli dissi “Sono d’accordo, ma lo stesso vale per gli uomini, anch’io sono preoccupata per i loro testicoli quando saltano dal trampolino…” Siamo andati avanti anche in questo campo e alla fine ho avuto ragione, nel 2010 ho visto per la prima volta le ragazze gareggiare dal trampolino e mi sono emozionata.
- Alle Olimpiadi Invernali di Lillehammer del 1994 lei ha raggiunto l’apice della sua carriera di atleta vincendo due medaglie d’oro e diventando un’icona dello sport italiano. Prima dei trionfi c’è stato un momento durante il suo percorso sportivo fatto di sacrifici e allenamenti in cui ha capito realmente che avrebbe potuto raggiungere questo duplice traguardo?
Francamente, prima di diventare molto competitiva nella mia specialità, non ho mai pensato a quante medaglie avrei potuto vincere e neanche al fatto che un giorno sarei andata alle Olimpiadi.
- Ha mai attraversato una fase complicata, una crisi di identità in cui era sul punto di mollare del tutto l’attività agonistica?
Mai pensato di smettere, anche se quando i miei problemi alla tiroide si sono aggravati ho attraversato un momento molto difficile. E’ stato un calvario che ha cementato il mio carattere, in quel periodo pensavo soprattutto a tornare sulla neve, non vedevo l’ora.
- Alle Olimpiadi Invernali di Torino del 2006 lei, in quanto membro del CIO, ha premiato suo fratello Giorgio con la medaglia d’oro, fresco vincitore della 50 km. Un momento solenne che ha simboleggiato una sorta di passaggio di consegne nella famiglia Di Centa, cosa vi siete detti in famiglia una volta terminata la cerimonia di premiazione?
La nostra è sempre stata una famiglia molto umile, nonostante questi trionfi non è cambiato praticamente nulla. Mamma e papà ci hanno semplicemente detto che si sentivano orgogliosi dei loro figli e che non dovevamo cambiare atteggiamenti e i nostri comportamenti dopo i successi. Un esempio: mio padre, a un giornalista che si complimentava per le mie medaglie, rispose semplicemente “E’ stata brava, ma ha fatto quello che doveva fare”. Premiare in mondovisione Giorgio è stata sicuramente una grande emozione, è e resterà sempre il mio fratellino al quale ho cambiato il pannolino! I nostri trionfi ce li godiamo quando ci incontriamo e ci guardiamo, siamo sempre rimasti con i piedi ben ancorati alla terra.
- Lei è stata una grandissima atleta, è diventata parlamentare entrando nella porta principale della politica italiana, poi ha ricevuto diverse e importanti nomine dirigenziali nell’ambito delle alte sfere dello sport italiano e mondiale, inoltre ha condotto due o tre programmi televisivi in Rai e su Marco Polo. Nel 2003 è stata la prima italiana a raggiungere la coma dell’Everest e, tanto per non farsi mancare nulla, gestisce una casa vacanze nel suo paese. Non ha mai avuto il tempo di annoiarsi nella sua vita, è insito nella sua indole il non restare mai ferma?
Sì, assolutamente. Ho sempre ritenuto che la vita di atleta non dovrebbe finire con il ritiro dell’attività agonistica. Penso che i grandi campioni vengano riposti troppo presto nel cassetto mentre potrebbero offrire molti contributi al mondo giovanile e nel sociale. Io continuo a studiare, 4 anni fa mi sono laureata, adesso ho 58 anni e sto seguendo un Master. Non ho mai pensato di fermarmi, la vita deve andare avanti con altri obiettivi. Amo comunicare e quando mi hanno chiesto di condurre dei programmi in Rai mi sono divertita molto, anche se all’inizio ho provato molta emozione. E’ stata una mia scelta quella di lasciare la televisione, mi piaceva ma sono una donna di montagna, devo vedere il sole per preservare il mio stato psico-fisico e stare chiusa dentro uno studio tutto il giorno non fa per me (ride, ndr).
- Nel 2026 l’Italia ospiterà le Olimpiadi Invernali a Milano e Cortina, una candidatura vincente che riporta in alto il nostro paese a livello organizzativo, dopo anni di stasi e di crisi. Pensa che in Italia, anche a livello internazionale, politico, economico e dirigenziale, abbiamo un po’ smesso di ambire ai grandi risultati? Come vede e come giudica l’umore del nostro paese?
Eravamo già peggiorati e indubbiamente i problemi sono aumentati con la pandemia. In termini di capacità penso, però, che ci sottovalutiamo. Siamo sempre pronti a criticare noi stessi, a differenza di quanto avviene in altri paesi. Le Olimpiadi del 2026 rappresentano una grande speranza per l’Italia. Nel 2019 ho contribuito all’organizzazione dell’Universiade a Napoli ed è stata una grande successo, nonostante lo scetticismo iniziale e le difficoltà oggettive. Penso che siamo un grande paese.
- Cosa pensa delle restrizioni che hanno fortemente limitato l’attività degli impianti sciistici e il turismo invernale in questo periodo?
Da sportiva vorrei sempre vedere tutti gli impianti aperti, ma in una situazione del genere purtroppo le decisioni diventano inevitabilmente impopolari. Gestisco una casa vacanza, è ovviamente chiusa. Non ci fa piacere, non fa piacere a nessuno, ma è così. Penso che in questo momento nello sci si potrebbe indirizzare il modo di fare turismo verso una strategia meno legata all’impiantistica classica, che crea assembramenti, e più legata alla montagna in senso stretto, come lo sci nordico, lo sci alpinismo e le camminate in montagna.
- Concludiamo tutte le nostre interviste con tre domande più “leggere” le cui risposte saranno successivamente raccolte in un pezzo unico. Ci può dire il titolo del libro che sta leggendo, la canzone che la accompagna in questo mese e il suo piatto preferito?
Ecco, queste sono le domande più difficili! (ride, ndr). Attualmente sto leggendo più cose contemporaneamente come “La donna giusta” di Sándor Márai, un libro un po’ pesantino da un punto di vista stilistico ma molto interessante, e alcune biografie come quella su Caterina di Russia che mi ha colpito particolarmente. Sto ascoltando spesso “E…” di Vasco Rossi, mentre il mio piatto preferito sono i Cjarsons, una ricetta tipica della Carnia. E’ un piatto molto povero, ma allo stesso tempo è saporito. Sono una specie di agnolotti, contengono una serie di erbe aromatiche della mia terra e le patate, si condiscono con burro e salvia.
Giornalista pubblicista, vive a Roma, ma di radici e origini ponzesi. Fotografo a tempo perso, appassionato di letteratura, heavy metal e new wave da sempre. Per Bertoni Editore ha pubblicato “Siamo Uomini o Calciatori”.