Protagoniste: Intervista a Isabella Nefar, al cinema con Profeti
Isabella Nefar dal 26 gennaio è nelle sale con Profeti di Alessio Cremonini, il suo primo film italiano nonostante le origini italo-iraniane e parte della sua formazione alla Scuola Paolo Grassi di Milano.
Nel progetto del regista David di Donatello per Sulla mia Pelle (film sulla vicenda Cucchi) Isabella Nefar è Nur, carceriera e compagna di alloggio, in un campo di addestramento in Siria, della giornalista Sara (Jasmine Trinca), catturata durante un’inchiesta. Nur ha sposato per amore un mujahid e pur essendo cresciuta in Occidente, ha non solo abbracciato la fede in Allah ma anche, purtroppo, l’estremismo islamico e la jihad. Mentre è nei nostri cinema, Isabella è anche su Showtime nel film Small City, ha da poco finito un progetto per la BBC dal titolo The Gold ed ha all’attivo una serie tv su Apple TV Tehran e il film con Johnny Depp e Mark Rylance presentato a Venezia, Waiting for the Barbarians.
A Pink Society l’attrice racconta Profeti, l’incontro-scontro tra il suo personaggio e quello di Jasmine Trinca sull’essere donna oggi e infine ci accompagna dentro la sua vita, passata in Iran per i primi 18 anni ed oggi vissuta a Londra con un tocco di Italia.
Come è arrivato Profeti?
Attraverso la mia agenzia a Londra dove arriva veramente di tutto. Da quando ho cominciato la mia carriera, ho partecipato maggiormente a progetti internazionali e quasi mai inglesi, quindi Profeti è stata una sorpresa perché era uno dei primi film italiani che mi arrivava ma girato in inglese. Aveva poi una storia molto particolare con un ruolo che mi aveva colpito fin da subito perché era diverso da quello che avevo visto finora. Una donna, una foreign fighters questa volta rappresentata diversamente rispetto al passato, dove queste persone sono state descritte, per la maggior parte dei casi e giustamente, come delle vittime. Il mio personaggio invece era rappresentato come molto ancorato nella sua scelta folle di far parte di questo gruppo terroristico. Appena ho letto la prima scena, ho capito che c’era molta più profondità di quello che purtroppo ancora vediamo nei ruoli scritti per il cinema adesso. Spesso la donna del Medio Oriente viene rappresentata o come vittima o come cattiva, come terrorista, ed invece, leggendo la descrizione del personaggio, ho capito che Alessio Cremonini voleva andare da un’altra parte, esplorare comunque delle tematiche che mi hanno subito interessato.
Come definiresti Nur?
Una molto ancorata nella sua decisione. Parte da una storia e da un passato turbolento come molti foreign fighters del resto. Spesso queste persone hanno sofferto una mancanza di appartenenza ad un gruppo, a un’identità e frequentemente all’estero subiscono episodi di razzismo, specialmente nei paesi dell’Occidente. Fanno parte di quel piano fallimentare che qui chiamano integrazione. Immagino il passato di Nur così, e lei innamorandosi, trova nell’amore anche una fede che la porta comunque ad un estremismo e ad essere ancorata nella sua decisione.
Lo scontro-incontro, il dialogo tra queste due donne nel film si percepisce come una danza. Lo hai sentito anche tu così?
È interessante il termine che hai usato, una danza. L’azione di cui ci ha parlato anche Alessio è stata proprio il danzare. Lui ha avuto il genio, la brillantezza di mostrare comunque due donne che hanno opinioni diverse in alcuni momenti ma che si trovano anche ad avere molte cose in comune. Più che decidere chi ha ragione e chi ha torto nel film, credo che quello che si cercava di fare attraverso il film era riflettere sulla condizione della donna. Due mondi che partono da passati simili, Nur come Sara ha vissuto in occidente. Si ritrovano a prendere delle decisioni così sbagliate e si trovano in uno spazio così intimo a discutere la condizione della donna e la sua condizione di libertà e di come questi preconcetti con cui cresciamo, ci tengono molto ancorati, così sicuri. Nur smonta tutte queste idee che abbiamo noi sulla libertà. Credo questa sia una delle tematiche più interessanti perché punta un po’ anche il dito allo spettatore e ti fa anche riflettere sulle tue ideologie e idee.
Possiamo veramente avvicinarci a comprendere queste persone, le loro motivazioni, attraverso il cinema?
Credo che il cinema in qualche modo possa un po’ aprire una finestra su queste tematiche ma credo che sia molto difficile arrivare a una conclusione e dire se le cose sono giuste o sbagliate. Nel caso di alcune situazioni di paesi lontani da noi, molto complesse, non possiamo magari necessariamente capire perché non abbiamo avuto noi quell’esperienza del vivere, ad esempio, sotto determinate regole o culture. Sicuramente però, ad esempio dal punto di vista delle donne, c’è molta più comunione che divisione. In qualche modo le donne in tutto il mondo, da qualunque parte vengano, vivono in forme diverse le conseguenze del patriarcato. A livelli diversi, c’è grande empatia.
A proposito di patriarcato, si ride amaramente nel guardare un momento del film dove Nur dice a Sara: “gli uomini fanno la storia”. E Sara concordando risponde: “anche troppo in effetti”. Questa è ancora la situazione. Bisogna capire poi in che modo la vogliamo vedere e in che modo la stiamo cercando di cambiare.
Sì, esatto, ed è anche il problema per cui basta accendere la televisione e vediamo continuamente donne che lottano per i propri diritti in tutte le parti del mondo: nel Medio Oriente, in Iran, in Afghanistan o anche America dove si lotta per la libertà di poter decidere cosa fare col proprio utero. Nel mondo c’è una grande paura di permettere alle donne di iniziare a fare la storia, forse avremmo meno guerre se ci fossero più donne al potere.
Perché hai deciso di fare l’attrice?
È una domanda che mi faccio spesso ma non so rispondere. Sono sempre stata una bambina molto creativa, mi piaceva creare dal niente, sono cresciuta in un paese che non offriva magari quello che offrono altri paesi, tipo le scuole di danza per bambini ad esempio. Facevo un po’ tutto per conto mio ed ho scoperto, inizialmente, di essere molto appassionata di danza. Mi piaceva tanto ballare con Michael Jackson, avevo il satellitare, accendevo i canali dell’estero e imparavo tutte le coreografie a memoria. Piano piano ho scoperto che una cosa portava all’altra, la danza portava alla recitazione e al canto quindi volevo il pacchetto intero. Avvicinarsi a qualche scuola era molto difficile. Suonavo il pianoforte perchè era la cosa più facile a cui accedere. Sono venuta in Italia ed ho provato ad entrare in una scuola di recitazione. Ho avuto molte porte sbattute in faccia quando ero in Iran, scuole e lezioni che non potevo fare perché o erano di sera e dovevo fare i compiti o erano per maggiori di 18 anni. Mi sono sentita privata di una cosa così innocua che credo che forse, ad un certo punto, ho deciso di diventare attrice quasi per una questione di principio.
Vista la grande tradizione di cinema iraniano fatto di grandi maestri, mi chiedevo perché infatti non avessi studiato lì?
Era molto complicato entrare in quel circolo. Avrei dovuto passare anni a cercare in qualche modo di farmi conoscere da qualcuno, era un sistema che funzionava per conoscenze, e non esisteva quel passaggio, il fare l’accademia e poi i provini. Non avevo tempo di passare tutta la mia vita a conoscere le persone giuste e avevo voglia di imparare il mestiere in accademia, scolpire come uno scultore tutte le diverse parti dei miei diversi talenti. Sentivo che semplicemente restare lì e sperare che qualcuno mi notasse sarebbe stato un viaggio molto lungo di continui rifiuti, di cui ero già stufa.
Anche in Italia però notavo che, se fossi rimasta, avrei dovuto impiegare del tempo per fare delle conoscenze. Io sono terribile a fare networking. Avevo voglia di essere presa perché ero brava e basta. Mi piaceva l’idea della meritocrazia. Mi sono trasferita a Londra e lì ho scoperto che esiste perché finita la LAMDA (London Academy of Music and Dramatic Art) ,il mio primo ruolo è stato fare la Salomè al National Theatre nel parco principale. Quindi ho pensato che lì, se eri bravo, potevi riuscire.
Tornando a parlare di donne, dal punto di vista della tua esperienza internazionale, a che punto siamo, nel mondo dello spettacolo, in quanto a cambiamenti su parità di genere e ruoli femminili?
Credo che ci sia ancora tanta strada da fare e che non si stiano ancora rispettando le attrici ed i ruoli nel modo giusto. Sicuramente grandissimi passi sono stati fatti nella scrittura dei ruoli e in quanto a presenza delle donne anche dietro la macchina da presa, nel dietro le quinte. Nel confronto tra uomini e donne, per queste ultime è tuttora più complicato ricevere ruoli, specialmente nelle grandi produzioni. C’è sempre, secondo me, ancora troppa attenzione a come il corpo della donna viene mostrato, se sei troppo magra, se non lo sei, e i ruoli sono ancora spesso monodimensionali. Si deve ancora imparare molto anche su come lavorare con le attrici sul set. Molti registi ancora non sanno bene come approcciarsi e richiedono cose che non bisognerebbe chiedere e ci dovrebbe essere anche un’attenzione diversa per le attrici che hanno appena cominciato, quelle più vulnerabili che, magari inizialmente, non sanno come vocalizzare un no, un rifiuto. Nonostante i miglioramenti, c’è sempre quella oggettivazione del corpo femminile, sempre una scena di nudo o una scena di sesso e verrebbe da chiedersi se effettivamente ce n’è sempre bisogno. Personalmente, ogni volta che ho avuto una scena dove avrei dovuto mostrare il mio corpo, ho sempre chiesto di avere una conversazione con il regista per chiedere perché, e in che modo il mio corpo nudo portasse avanti la narrazione, la storia. Molto spesso ho avuto delle ottime conversazioni. Questa però sono io, magari qualcuno che ha appena cominciato, non ha la forza di farlo. È difficile trovare un equilibrio.
Cosa ti auguri per il futuro?
Mi auguro di continuare a fare ruoli complessi e personaggi che mi permettano di andare in fondo, che mi insegnino qualcosa allontanandomi da me per poi tornare con più conoscenze. Mi auguro un Iran libero e di lavorare con registe e registi, attori e attrici, in gamba.
Napoletana trapiantata a Roma nel 2006, dopo un inizio da programmatore di rassegne cinematografiche, si dedica al giornalismo di cinema, prima per una radio internazionale, poi in TV come critico cinematografico e su riviste e magazine specializzati. Dalla maternità in poi si dedica anche a scrivere delle infinite sfumature dell’essere donna e mamma. Nel tempo libero che riesce a trovare, si dedica all’altra sua grande passione: cantare con Le Mani Avanti, un coro a cappella di 30 elementi.