fbpx

Pink Society

lo sguardo rosa sulla società

La bambina che non voleva cantare, il film dal libro di Nada Malanima su Rai1 il 10 marzo

Tecla Insolia | photo: Fabrizio Di Giulio
Tecla Insolia | foto: Fabrizio Di Giulio

Intervista a Costanza Quatriglio, Tecla Insolia e Carolina Crescentini

Tratto dal libro autobiografico scritto dalla cantante Nada Malanima dal titolo Il mio cuore umano, arriva su Rai 1 in prima serata il 10 marzo,  La bambina che non voleva cantare, il nuovo film di Costanza Quatriglio con Tecla Insolia nei panni della giovane Nada e Carolina Crescentini in quelli di sua madre Viviana. Costanza Quatriglio concentra il suo sguardo sulla crescita di Nada, alla scoperta del suo dono, quello del canto, al rapporto complicato con la madre affetta da depressione fino all’adolescenza e l’arrivo della vera vocazione, la decisione di voler veramente cantare per se stessa e non per gli altri. Dove per alcuni biopic il successo a Sanremo è l’inizio, per quello di Costanza Quatriglio è la chiusura di un cerchio e di un film che lascia presagire il futuro ma non lo mostra. In un incontro a domande incrociate, ci lasciamo accompagnare dentro al film da Costanza Quatriglio, Tecla Insolia e Carolina Crescentini con una riflessione sul valore della propria arte e dell’avere qualcuno che crede in noi.

Costanza Quatriglio e Tecla Insolia-backstage- | foto: Fabrizio Di Giulio

Costanza, mi sembra di percepire che al di là del biopic e della fedeltà al libro di Nada da cui è tratto, il fuoco del film percorra due linee principali: il rapporto madre-figlia con tutto ciò che di universale e empatizzabile c’è per lo spettatore e il rapporto con la propria arte, la vocazione, il talento che qui non è un percorso scontato. È corretta questa lettura?

Diciamo che la lettura è corretta nel senso che l’anima del film è questa: il cercare di mettere insieme un rapporto non pacificato con quello che per questa bambina è in qualche modo la chiamata,  questo prodigio che ha dentro di sé e che deve liberarsi. C’è poi anche il fatto che Nada ha la madre malata di depressione che ad un certo punto lei pensa di poter guarire attraverso l’espressione artistica, solo che deve fare i conti con il fatto che la madre soffre di depressione e non guarirà mai se lei canterà ma che questo le dà gioia. Questi i nodi esistenziali della bambina e di sua madre che attraverso il talento della figlia sente la possibilità di una vita migliore per sua figlia ma anche per se stessa quindi in qualche modo un’uscita dalle proprie ossessioni depressive. Tutto questo fa parte poi dell’anima di questo film che cerca di mettere insieme le cose che apparentemente sono distanti. La cosa importante è che sia la madre, sia il maestro, sia la suora che trova questo talento per la prima volta, tutti i personaggi intorno a questa bambina trasferiscono in lei i propri desideri e ciascuno vede quello che sente di vedere: la suora vede l’espressione divina, il maestro vede l’ideale romantico, la mamma vede un’occasione di riscatto verso una vita migliore, ciascuno vede qualcosa quindi la bambina deve fare i conti con lo scopo dell’arte. Qual è lo scopo? Mi dà gioia, mi fa star bene? Faccio star bene me stessa e mia madre e poi c’è tutto un percorso di riconoscimento di un qualcosa che poi avverrà nel corso del tempo.

Tecla, quello che mi ha affascinato della storia di Nada e di cui volevo chiedere un parere a te da cantante ancor prima che attrice è questo suo non voler diventare una cantante nella prima parte della sua vita.  Come è stato per te intraprendere il percorso di Nada di consapevolezza dal dover cantare per forza al voler cantare per vocazione e piacere?

Diciamo che come Nada, spesso mi sono ritrovata obbligata a cantare su un palco. Da quel che ricordo ho sempre amato cantare, tutt’ora amo cantare ma ho molta paura del giudizio delle persone e trovo grande difficoltà nel cantare davanti a un pubblico.  Ho compreso quindi in modo molto profondo ciò che provava il mio personaggio, che ha provato Nada.

Carolina Crescentini e Giulietta Rebeggiani | foto: Fabrizio Di Giulio

Carolina, hai detto che per te era molto importante far parte di questo film. Sappiamo che tuo marito Francesco (Motta n.d.r) ha cantato con lei nella scorsa edizione di Sanremo. Perché ci tenevi ad interpretare un ruolo molto significativo nella vita di Nada, sua madre Viviana?

Nada e Francesco si conoscono da molto prima di Sanremo perché lui prima di fare la sua band che si chiamava Criminal Jokers e poi il progetto solista, era nella band di Nada. Tutta la band di Nada poi era composta dai miei amici Zen Circus e la prima persona che Francesco ha voluto che incontrassi all’inizio della nostra frequentazione è stata Nada. Doveva esserci una sorta di benedizione e quando il mio agente mi ha chiamato e mi ha detto c’è questo provino, vuoi andare? Io ho detto sì, ho letto le scene e ho pensato: wow!.

Nada, con cui siamo diventate molto amiche, mi aveva raccontato che la mamma era molto problematica e che insisteva, insisteva e che a lei non andava, mi aveva raccontato anche della suora che insisteva perché è tutto vero quanto raccontato nel film. Non avevo ancora letto il libro però ad un certo punto dopo tutti questi provini, arriva la sceneggiatura ed io rimango colpita. Mi ha emozionato all’istante soprattutto dopo tutti i racconti di Nada, adesso capivo l’altro punto di vista, il punto di vista della mamma. Era una sfida enorme e difficile perché nell’istante in cui rappresenti un personaggio realmente esistito ed è la mamma di una persona a cui vuoi bene, sei certa che stai scomoda perché hai paura di sbagliare e di mancare di rispetto al ricordo e poi perché è chiaro che ci saranno delle incongruenze anche perché io la signora Viviana non l’ho mai conosciuta ma ho cercato di essere onesta emotivamente in tutti i modi. In più, è la storia di una donna che cavalca un’epoca perché la prima parte del film ha una dimensione rurale contadina che nel libro viene spiegata molto bene e che proprio appartiene quasi più all’800 che al 900 e ad un certo punto attraverso poi la storia della figlia si catapultano nel moderno e attraversano un’epoca. Tutto ciò con una malattia della quale ancora oggi un po’ ci si vergogna in un paesino piccolo dove tutti parlano di Viviana come la matta del paese perché lo sanno tutti, dove si sperimentano cure senza avere ancora una certezza e lei in qualche modo un po’ è una cavia. Ricordiamo che siamo nel periodo prima della Legge Basaglia,senza etica, dove valeva tutto e lei è consapevole di non essere una buona madre. Quando ritrova la foto del matrimonio della figlia più grande, lei si vede nella foto completamente assente e si rende conto che ha rovinato un momento enorme e quelle sono cose che non ti perdoni mai. Quando si scopre il dono di Nada, per lei non è un’ossessione che la bimba diventi famosa, è importante non abbia la sua stessa vita, io parlo di questo dono come di un passaporto per la libertà. Poi è chiaro che la bimba vuole giocare nei campi con i bambini della sua età e non vuole andare a fare i concorsi canori, vorrebbe tutto molto più semplice e a quel punto è il ruolo della madre insistere, non è cattiveria e quando le cose iniziano a girare, lì parte l’orgoglio enorme e la scoperta della felicità perché Viviana non ha mai avuto un momento di felicità quindi quei premi che sono sul camino sono un cuore che esplode. Quando arriva la lettera dell’impresario è qualcosa di talmente enorme che non lo sa gestire quindi mi piaceva tanto questo personaggio fino all’ultima scena in cui lei mette sua figlia in mano agli altri e diventa madre per davvero, una mamma orsa che deve proteggere assolutamente. Non tutte nascono naturalmente madri e tutti questi personaggi durante il film crescono insieme.

Carolina Crescentini e Daria Pascal Attolini | foto: Fabrizio Di Giulio

Questo film rappresenta anche con rispetto questo male invisibile che è la depressione.  Solo ora se ne sta incominciando a parlare ma è un termine abusato.

Ti ricordo che ai tempi lo chiamavano esaurimento nervoso e della donna dicevano che era isterica. Perché ora si hanno gli strumenti per capirlo. Mi hanno detto che questo era un film senza cattivi e io ho risposto: no, il cattivo c’è, solo che non si vede, è enorme e cerca di minare le cose più semplici.  La depressione è invisibile ma è potente quanto un’arma e secondo me bisogna parlarne perché tanta gente soffre di depressione. Io quando pensavo a Viviana e a tutte le sue oscillazioni ho pensato anche a persone che hanno questo problema, a volte parli con i medici e ti parlano di scompensi chimici ma in realtà non è solo quello c’è tutta una serie di cause che ti portano al crollo.

Tecla, secondo te come si affronta il passaggio di Nada per capire cosa si vuole veramente fare nella vita?

Io non lo so bene, avendo 17 anni so relativamente ciò che voglio essere. Per quanto riguarda la crescita del personaggio di Nada, lei aveva continuato a cantare soprattutto davanti agli altri principalmente perché era fermamente convinta del fatto che la sua voce potesse guarire la malattia della madre con la quale aveva un rapporto molto turbolento. Dopo l’ultima ricaduta della madre, capisce che non è lei a salvarla, che la malattia è imprevedibile ed è lì che avviene il cambio. Lei capisce che lo deve fare non solo per sua madre ma anche per lei.

Paolo Calabresi e Giulietta Rebeggiani | foto: Fabrizio Di Giulio

Costanza, sembra paradossale ma nel film ho trovato che anche i personaggi maschili esaltassero il femminile, nel senso del rendere più autentico ed anche più chiaro il cammino di Nada nel mondo. Nel suo percorso mi sembra che Nada sia stata una donna fortunata con gli uomini nella sua vita, rispettosi del femminile.

Si, a partire dal maestro che le dà quell’educazione sentimentale che corrisponde ad un immaginario romantico, a qualcosa a cui attingere come linfa per le canzoni e che lei deve imparare a gestire perché chiaramente è una bambina piccina e come dice la suora, quelle non sono canzoni da piccini, sono canzoni da grandi perché lui le insegna questo amore passionale. Il maestro Leonildo (Paolo Calabresi) è un melanconico innamorato dell’amore e lo fa con una delicatezza, una dolcezza che ti mette sempre al riparo dal cinismo. Il papà è un uomo mite che ha la forza dell’affetto pur non avendo gli strumenti. Poi nessuno secondo me li ha mai per gestire una malattia mentale, un disagio psichico in una famiglia ma lui ha la forza dell’affetto, la forza dell’amore e quella cosa lì è potentissima e si disvela piano piano nel racconto per cui un uomo semplicemente silenzioso o passivo in realtà è un uomo che ha la forza della mitezza e questa mitezza è un valore politico, quasi è un modo di stare al mondo. Anche qui siamo di fronte ad un personaggio maschile che tira fuori diciamo un’anima non scontata rispetto all’immaginario del maschio. E poi Jerry è in qualche modo un personaggio che fa da ponte tra la vita che era e quella che sarà nel futuro e che corrisponde ad un’anticipazione che nel film è una zona di invenzione che però attinge alla realtà perché Gerry è il marito di Nada. Volevamo levare Nada e la sua storia dalla dimensione “io ce la faccio perché vado a Sanremo” e mostrare che no, lei ce la fa perché dentro di sé trova delle chiavi di lettura per affrontare i suoi drammi, i suoi conflitti, i suoi fantasmi e crescerà, crescerà e troverà la sua strada. 

A proposito del trovare la propria strada io c’è l’ho visto nel modo in cui hai rimodernato e riarrangiato il finale, lo definirei un avviso rock sul futuro.

Si, è esattamente un avviso rock sul futuro, grazie per averlo colto perché è una cosa a cui teniamo molto. Mi è venuta questa idea in mente e a me piace sempre lavorare sulle musiche, tanto, ed è stata una cosa dell’ultima ora.

Tecla Insolia | foto: Fabrizio Di Giulio

A proposito di questo rapporto madre-figlia che si analizza nel film, quanto è importante secondo voi, nella vita, avere qualcuno che creda in noi per la realizzazione dei nostri sogni e per il raggiungimento del successo?

Tecla Insolia: Diciamo che bisogna capire cosa si intende per successo. C’è chi intende il successo popolare e c’è chi lo intende come raggiungimento degli obiettivi e scopi personali senza spiattellarlo al mondo.  Detto questo, credo che sia molto importante nella carriera di chi voglia intraprendere questo lavoro, che ci sia qualcuno che crede in te e con qualcuno io parto soprattutto da se stessi. Se io non avessi avuto persone con me che a volte credevano più in me di quanto non lo facessi io, forse per il mio spirito autocritico avrei abbandonato sicuramente e non avrei affrontato le situazioni che mi si sono poste nella vita con la grinta con cui l’ho fatto perché quando non si ha sicurezza in se stessi, è difficile affrontare tante cose.

.

Carolina Crescentini: Una persona ti serve. Nel mio caso è stata Cathy Marchand, la mia insegnante quando facevo i seminari con il Living Theatre, prima della scuola e prima del Centro Sperimentale. Almeno uno ti serve perché avrai sempre dei momenti di crollo, non c’è niente da fare. Questo è un lavoro, che tu faccia il musicista o l’attore, dove a volte il concetto più importante oltre al talento, è la resistenza perché il numero di attori è superiore al numero di ruoli a disposizione, perché a volte la motivazione per rifiutarti è veramente inconcepibile o ridicola e non tutti hanno tatto, sensibilità o intelligenza.  Una persona, quindi, serve, perché ogni tanto scivoli ed è normale.

Tecla Insolia | foto: Fabrizio Di Giulio