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La solitudine dei primi (su Zoom)

La solitudine dei primi (su Zoom)

Mesi fa avevo scritto un post semiserio su Facebook, asserivo che era più divertente aspettare le persone al citofono che su Zoom. Ora no, ora ci rifletto. Ora penso che aspettare le persone su Zoom sia faticoso, snervante e sinceramente, ne vale la pena?

Intendiamoci, non sto parlando di svago. Non attendo che la persona speciale si colleghi per darmi la buonanotte, guardando le lancette con il cuore che batte come negli anni 80 facevo, aspettavo che il telefono fisso squillasse.

No. È lavoro. Aspetto che la gente si colleghi per lavoro. Ossia, ho detto male: mi collego all’ora dell’appuntamento e…aspetto.

Quanto aspetto? Quanto devo aspettare? Quanto si confà che io aspetti un intervistando per lavoro?
Mezz’ora? Fatto. Un’ora? Fatto.
Colpa mia che l’inquadratura per registrare lo Zoom (è lavoro, sono videointerviste) non è la mia scrivania abituale ma una scomoda location con bello sfondo? Sì.
Colpa mia che è sabato? Domenica? Notte? Mattina all’alba quando il Prof o la Prof smonta dalla guardia notturna? No. Ma è mio dovere essere elastica. Sono elastica, espandibile al massimo, non ho più ritmi, non ho pause, ho solo un’agenda di infinita disponibilità a dare il 100%, a fare il miglior lavoro possibile, sempre, continuamente.

Ma questa solitudine di chi aspetta su Zoom è estenuante.
Ho parafrasato nel titolo il Premio Strega del 2008 “La solitudine dei numeri primi”. La solitudine di noi primi arrivati all’appuntamento è il vuoto cosmico, è la stanchezza mostrata in ogni riga (riga eh, non ruga!) del mio volto mentre la luce che entra dalla finestra cambia angolazione ed allunga le ombre, è il diminuire della mia comprensione nei confronti del lavoro altrui. È stanchezza.
Tempo perso forse? No, sto scrivendo questo pezzo mentre attendo ancora, siamo a 45 minuti di ritardo adesso.
Io che arrivo sempre prima non comprendo, non ho mai compreso, né al citofono, né al pc.

E voi, che cosa ne pensate?

Waiting is the new black.
Monica, out.