Anche l’età dell’uomo influisce sui risultati della PMA: il fattore maschile ha un ruolo nel determinare la qualità dell’embrione
Anche l’età dell’uomo e i parametri del liquido seminale hanno un loro ruolo nella riuscita di un ciclo di procreazione medicalmente assistita.
Su questo argomento è da tempo in atto un approfondimento scientifico in tutto il mondo e i dati raccolti in Italia dal gruppo Genera, specializzato in Medicina della riproduzione, confermano l’esistenza di una possibile legame fra i cosiddetti ‘outcome’, cioè i risultati di un trattamento per l’infertilità.
Ad evidenziarlo è lo studio “WHO 2021-based comprehensive appraisal of sperm factor parameters’ association with embryological and clinical outcomes. A single center study of 4013 PGT-A cycles”, presentato come poster oral al 39esimo congresso della Società europea di Medicina della riproduzione ed embriologia (ESHRE) in corso a Copenhagen.
“In questo studio – afferma Rossella Mazzilli, androloga del centro Genera di Roma – ci siamo domandati quale fosse l’impatto dei parametri seminali e dell’età paterna sui risultati embriologici e clinici nei cicli di fecondazione assistita eseguiti tramite ICSI (l’iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo all’interno dell’ovocita, che si oppone alla FIVET in cui i gameti sono lasciati ‘liberi’ di fecondarsi in vitro). In un nostro precedente studio, avevamo già notato un’associazione tra la presenza di un fattore di infertilità maschile severo (inteso come oligoastenoteratozoospermia, azoospermia ostruttiva e azoospermia non ostruttiva) e una riduzione dei tassi di fecondazione/blastulazione (cioè la capacità di un embrione prodotto in vitro di raggiungere lo stadio di blastocisti, necessario per avere le carte in regola nella strada verso la gravidanza). Non era stato evidenziato, però, nessun impatto sui tassi di euploidia allo stadio di blastocisti, cioè sul fatto che l’embrione, dopo aver raggiunto lo stadio di blastocisti, fosse anche cromosomicamente sano. Allo stesso modo, i risultati clinici erano apparsi per lo più indipendenti dalle caratteristiche del liquido seminale, una volta trasferite blastocisti euploidi”.
Ad oggi, i dati sull’effetto dell’età paterna sono controversi. Questo perché, prosegue l’esperta, “la maggior parte degli studi fino ad oggi condotti non menzionava i tassi cumulativi di bambini nati vivi per ciclo, e si basava sui criteri dell’WHO 2010, recentemente aggiornati nel 2021. Il nuovo manuale ha infatti introdotto importanti cambiamenti, sia nella metodologia che nella interpretazione dei risultati, eliminando definitivamente il concetto di normalità e i valori minimi di riferimento per il liquido seminale”.
Il gruppo di lavoro ha dunque preso in considerazione i nuovi criteri e ha “analizzato retrospettivamente i risultati di 4013 cicli ICSI con PGT-A (test genetico pre-impianto) condotti da 3101 coppie (anni 2013-2021). Le donne avevano una età media di 38,9 ± 3,2, mentre gli uomini un’età di 41,9 ± 5,7 anni.
I RISULTATI
“Abbiamo osservato come una ridotta motilità degli spermatozoi e la presenza di una concentrazione, morfologia e motilità <5° percentile (indicatore presente nei criteri WHO-2021) sono associati a esiti embriologici peggiori e ad un tasso cumulativo di nati vivi per ciclo PGT-A concluso ridotto. Per quanto riguarda l’età paterna, essa sembra influire negativamente sulla blastulazione e sulla qualità embrionaria”.
L’orizzonte è però ancora da chiarire: “Sicuramente il nostro studio presenta dei limiti. In primis, il 9% dei cicli non è ancora concluso, e questo potrebbe sottostimare gli outcomes clinici. Tuttavia, crediamo che i risultati di questo studio possano fornire ai professionisti operanti nel mondo della medicina della riproduzione dei dati utili per il counseling alle coppie infertili sulle loro possibilità di successo durante la fecondazione in vitro. Ciò potrebbe essere utile per l’iter decisionale relativo alle strategie cliniche più efficaci da applicare, ma anche per attribuire al fattore maschile la giusta considerazione e il giusto peso”.
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